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L'editoriale dell'elefantino
La grande lezione di Ruini
Ha detto quel che non è ovvio nella Chiesa palpitante di ovvietà. Chiarezza in sprezzo della menzogna
Qualche tempo fa in una conversazione con Antonio Polito, piena di brio e tanto diversa dalle solite chiacchiere, Camillo Ruini, il cardinale forse tra i più influenti e di prestigio della seconda metà del secolo scorso, per sedici anni capo dei vescovi italiani, registrò le sue idee sulla morte, sul dopo, una condizione di cui disse di sentire la vicinanza esistenziale, alla sua età più che veneranda. Il picco della conversazione fu raggiunto, dopo incursioni teologiche e filosofiche nella versione degli antichi, in Platone con il mito di Er, e nella mistica medievale di Caterina da Siena, dopo la menzione della tesi di Wittgenstein secondo cui “la morte non si vive”, dopo notazioni antropologiche di vario genere, tutte belle e popolari e sofisticate insieme, quando Ruini disse che la resurrezione dei cristiani è un modo di riscattare la vita spettrale dell’Ade, del sottosuolo dei defunti raccontato da un Omero o da un Virgilio, allo scopo di risolvere un problema fisico e logico, per così dire: senza il corpo, l’anima che gli sopravvive si sente incompleta come “un pinguino all’Equatore”.
Già, perché un’immagine ironica e poetica di questa pregnanza, intrisa di razionalismo e di sottile materialismo cristiano, è la sostanza del modo di essere del ceto ecclesiastico che sapeva di teologia, che studiava il Dio e la Creatura che rappresentava, nel lungo ciclo papale giovanpaolino e ratzingeriano sempre alimentato dalla ricerca del Veritatis splendor.
Superati brillantemente altri acciacchi, sulla sua sedia a rotelle che sembra un bolide di Formula Uno, con il tipico sguardo affilato ma non rapace, questo grande prete di Reggio Emilia ha dato una nuova lezione di chiarezza e di razionalità, nello sprezzo assoluto della menzogna e del latrocinio delle emozioni, lo sport più praticato del mondo e della Chiesa contemporanei. Non si è associato al mercato di bellurie pauperiste, generiche, e di gratitudine mondana travestita da spirito di carità, che ha alimentato la chiacchiera funeraria dopo la morte di Papa Francesco. Con decisione, dicendo cose acute, spinose, realistiche, raccolte da Francesco Verderami, ha detto quel che non è ovvio nella Chiesa palpitante di ovvietà. Bisogna, ha detto, restituire la Chiesa ai cattolici, ai credenti, ai figlioli non dotati di una fede problematica, a quei devoti della forma cattolica e del contenuto della dottrina che la ricerca della pecora nera, del figliol prodigo, ha lasciato in un’amara stupefazione, in un senso di abbandono e di solitudine. Ruini non ha preso a cannonate il papato appena trascorso, ma da intellettuale e porporato dotato d’ingegno teologico e di senso della fede ha destrutturato le abissali finzioni che in morte del Papa sono state prodotte dalla retorica di palazzo.
I cattolici non si accontentano di una fede problematica, ha detto, e quel “grazie Francesco”, che ha sostituito il grido wojtyliano di “santo subito”, mettendo di lato la questione della trascendenza nella storia della Chiesa e dei suoi simboli incarnati, non può esaurire lo spazio immenso che si apre quando si trascura la pulsione dei fedeli nello sforzo, magari evangelico, encomiabile, da non abbandonare ma da non ridurre a molestia ideologica, di aprirsi al mondo. Quelli come Giovanni Paolo, come Benedetto e come Ruini, quelli che hanno tentato non il restauro iconico della Tradizione ma la sua vivificazione nel segno di un nuovo illuminismo cristiano, della ragione e di un vero incontro con il mondo laico e secolarizzato, e solo per questo sono stati trattati da conservatori e da bigotti, sanno usare, da veri preti o curati di campagna, da veri emuli del meglio del cristianesimo novecentesco, un linguaggio che è in sé una misura di verità e di realtà. Sanno che la Chiesa è divisa, che non potrebbe essere altrimenti, e lo riconoscono con la dovuta sicurezza provvidenziale nel suo futuro, ci mancherebbe, e con la prudenza intelligente di un richiamo, dopo il papato del disordine creativo, dei processi lasciati più o meno liberi, delle incertezze e dei pasticci, a una soluzione sensata e persuasiva. Non vogliono che i cristiani si sentano come pinguini all’Equatore, ritengono urgente una riconciliazione.