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Benedette prove

La scienza non può dimostrare l'esistenza di Dio, perché su Dio non è in grado di indagare

Marco Bersanelli

Fede e scienza, un antico dibattito segnato spesso da un errore metodologico di fondo. Un libro

Una volta tradotto in italiano il libro di Michel-Yves Bolloré e Olivier Bonnassies è balzato ai primi posti delle vendite anche nel nostro paese. Con un titolo che promette le prove scientifiche dell’esistenza di Dio c’era da aspettarselo: è una questione che interessa tutti, non solo gli accademici. Salvatore, il mio barbiere, sapendo che mi occupo di scienza e che sono credente, ogni volta mi riempie di domande, spesso tutt’altro che banali. Il libro raccoglie molti elementi utili per chi vuole approfondire questi temi, tuttavia a mio parere soffre di un errore metodologico. Fin dall’incipit, infatti, la “creazione” viene esplicitamente trattata come una “teoria scientifica”, e poi passo dopo passo viene messa in competizione con “altre” teorie e valutata secondo i canoni tipici delle scienze fisiche. Ma ogni metodo si presta a rispondere a certe domande, e non ad altre. Confondere i piani può condurre a errori con dolorose conseguenze, come mostrano la nota vicenda di Galileo e le meno note e più tragiche persecuzioni nell’Urss contro la nascente cosmologia evoluzionista, ben documentate in quel libro.
 

Dove sta il problema? Le due principali argomentazioni cosmologiche che vengono trattate non sono né nuove né banali. La prima è basata sull’evidenza, scientificamente solidissima, che l’universo è in espansione. Estrapolando lo spazio e il tempo nel passato secondo la teoria della relatività generale ci si avvicina a un punto di singolarità, databile a circa 13,8 miliardi di anni fa, dove la densità e la temperatura tendono all’infinito e il tempo giunge a un termine. Non possiamo osservare quell’istante iniziale, ma abbiamo una traccia diretta di una fase immediatamente successiva (su scala cosmica), quando l’età dell’universo era appena lo 0,003 per cento dell’età attuale. Ecco dunque la prima “prova teologica”: poiché la scienza ha dimostrato che il tempo ha avuto un inizio, si dice, essa ha anche provato che l’universo è stato creato da Dio, e ha persino stabilito la data della creazione.
 

Dal punto di vista di un credente però, così posto, l’argomento è scivoloso. Anzitutto, le nostre attuali conoscenze scientifiche non ci permettono di concludere definitivamente che il tempo cosmico abbia avuto un inizio assoluto. Non abbiamo infatti una comprensione sufficiente dell’universo nelle sue primissime frazioni di secondo, quando gli effetti quantistici, non inclusi nella relatività generale, giocavano un ruolo determinante. Non possiamo quindi escludere che in futuro l’indagine scientifica giunga a una visione più ampia, compatibile con tutto ciò che oggi sappiamo, in cui quell’inizio sia riconosciuto come parte di una realtà più vasta. Tutto ciò è ad oggi altamente ipotetico, ma mi dispiacerebbe se qualcuno, avendo appoggiato la sua fede in Dio su questo appiglio, un domani la perdesse a causa di una meravigliosa scoperta scientifica.
 

Ma c’è un motivo più profondo per cui quell’approccio è inadeguato. Anche ammettendo che la scienza arrivi a dimostrare che l’universo proviene da una singolarità unica e assoluta, identificare la “creazione” con quell’istante iniziale sarebbe riduttivo. Un episodio legato a uno dei padri della cosmologia contemporanea, Georges Lemaître, è illuminante a questo proposito. Lemaître fu il primo a interpretare le osservazioni di Slipher e Hubble come indice dell’espansione dell’universo e a proporre una prima versione di quella che oggi è nota come teoria del “big bang”. Lemaître era anche un sacerdote cattolico e presidente della Pontificia Accademia delle Scienze. Nel 1951 papa Pio XII in un discorso all’Accademia identificò con entusiasmo il Fiat Lux del libro della Genesi con l’ipotesi scientifica dell’inizio incandescente dell’universo. Lemaître chiese subito udienza al Papa e lo convinse che quella sua uscita era stata quanto mai inopportuna. Il teologo-scienziato voleva salvaguardare la distinzione tra i diversi livelli del pensiero e della conoscenza. Come in seguito ebbe a dire: “Ho troppo rispetto per Dio per poterne fare un’ipotesi scientifica”.
 

Limitare l’atto creativo di Dio a un istante del lontano passato significa sminuirne la portata. Come disse Benedetto XVI, “Dio non è un’ipotesi distante, uno sconosciuto che si è ritirato dopo il Big Bang”. Se un Dio esiste, la sua azione creatrice non si esaurisce nel dare un “colpo iniziale” al mondo, ma permane nel “far essere” l’universo in ogni istante, nel colmare lo iato infinito tra il non-essere e l’essere di ogni cosa e di noi stessi. Se c’è stato un inizio del tempo, quel primo drammatico istante è creato tanto quanto lo è l’istante presente. Con le parole di Lemaître, il Creatore “sostiene ogni essere e ogni avvenimento”.
 

La seconda “prova teologica” parte da un altro fatto scientificamente consolidato, e cioè l’osservazione che le leggi fisiche che regolano l’universo appaiono finemente predisposte per produrre le condizioni necessarie alla comparsa della vita. In particolare certe costanti presenti fin dall’inizio della storia cosmica, come la carica e la massa delle particelle elementari, i parametri cosmologici, e così via, appaiono accuratamente sintonizzate: basterebbe modificare anche di pochissimo il valore di alcuni di quei parametri e l’universo sarebbe completamente privo di strutture e incapace di ospitare qualunque forma di vita. Questo “fine-tuning” potrebbe sembrare un’ovvietà: se una cosa esiste, ad esempio la farfallina che si è posata sulla pietra qui davanti a me, significa che nella storia dell’universo una combinazione di circostanze casuali e di leggi universali ha prodotto le condizioni necessarie perché quel piccolo insetto potesse esistere. Ma la cosa tutt’altro che ovvia è proprio l’esistenza della farfalla: in un ipotetico universo in cui le condizioni iniziali fossero state leggermente diverse, quell’animaletto sarebbe impossibile. A dire il vero quasi tutte le condizioni di “fine tuning” si applicherebbero anche per la pietra sulla quale la farfalla si è posata. Perché allora sottolineiamo il nesso con la possibilità della vita? Forse perché noi stessi siamo esseri viventi, e non abbiamo ancora perso il vizio di metterci al centro di tutto? Non proprio. Esiste infatti un senso oggettivo, indipendente da noi, per cui la materia vivente è qualcosa di assolutamente “speciale” nel panorama cosmico: il suo vertiginoso grado di complessità. Una singola cellula vivente da questo punto di vista surclassa qualunque sistema fisico non-biologico: un pianeta (privo di vita…), una stella, una galassia. Se per assurdo la nostra coscienza non fosse legata ad alcun tessuto vivente, guardando l’universo noi continueremmo a stupirci di come mai esista un nesso così profondo e delicato tra le leggi fisiche universali e quegli straordinari oggetti – gli organismi biologici – di cui noi non siamo parte.
 

Che cosa ha fatto sì che le leggi fisiche assumessero la forma che hanno? Chi o che cosa ne ha fissato i parametri? E’ la prova scientifica che Dio esiste? Anche qui è bene non far confusione. Il “fine-tuning” non ha spiegazione nell’ambito della fisica nota, ma di nuovo esiste la possibilità che quello che conosciamo oggi sia troppo poco. In futuro potremmo scoprire, ad esempio, che l’universo è molto più grande e vario di quel che oggi riteniamo, e quelle che consideriamo costanti universali in realtà non lo sono, ma cambiano leggermente su scale oggi ignote; questo darebbe ragione del fatto che nella regione di universo che ci circonda quelle costanti sono accordate con la vita e con la nostra esistenza. Queste linee di pensiero – le varie forme di “multiverso” – vanno molto di moda, e va sottolineato che al momento si tratta di speculazioni più metafisiche che fisiche, non sottoponibili a verifiche sperimentali, a volte ideologicamente enfatizzate da una cattiva divulgazione. D’altra parte l’esistenza di Dio è certamente un’ipotesi di ordine metafisico, e lo sarà sempre: non si vede perché la si debba costringere a competere sul piano delle teorie scientifiche, attuali o eventualmente future.
 

La scienza non può dimostrare l’esistenza di Dio semplicemente perché Dio non è il “tipo di cosa” che la scienza è in grado di indagare con i suoi metodi. Naturalmente vale anche il viceversa: quelle posizioni che pretendono di usare la scienza per escludere la fede in Dio sono del tutto fuori luogo. 
 

Significa che domanda religiosa e indagine scientifica sono due mondi separati, tra i quali non esiste alcun nesso? Tutt’altro, a mio parere. Il contributo della scienza è portare alla luce visuali inedite su quello stesso universo che nell’ipotesi religiosa è creazione di Dio. In esso la presenza del Creatore non si impone attraverso le vie irrevocabili della prova scientifica, piuttosto provoca la nostra ragione e si offre alla nostra libertà con discrezione, “ri-velandosi” attraverso il segno della natura. In questo modo quella che viene chiamata in causa non è solamente la nostra razionalità scientifica, essenziale per dimostrare un teorema o per scoprire una legge fisica, ma la ragione umana in tutta la sua ampiezza. Così via via che il cammino della scienza fa emergere la varietà dei fenomeni e l’unità sottostante che li lega, ci troviamo immancabilmente davanti a nuovi tratti di una bellezza sorprendente, che si propone alla nostra contemplazione e ci invita a riflessioni di ordine diverso, quelli propri della filosofia e della teologia.
 

Consideriamo ad esempio i due aspetti ora menzionati. Il fatto che l’universo osservabile sia indiscutibilmente una realtà dinamica e mutevole, protagonista di una storia particolare, è quasi una pedagogia che ci aiuta a cogliere la radicale contingenza della realtà, abituando il pensiero all’evidenza che ogni cosa proviene da “Altro”, non solo in senso temporale, ma anche in senso ontologico. E il profondo radicamento della vita nella vastità nell’universo a noi accessibile allontana l’idea ottocentesca di una natura estranea alla nostra esistenza, riproponendo l’antica percezione di una misteriosa provvidenzialità dell’ordine cosmico. Da sempre sappiamo che il nostro piccolo pianeta ci offre ospitalità con il giorno e la notte, l’aria e la pioggia, l’avvicendarsi delle stagioni, e così via; oggi vediamo anche che la nostra “oasi cosmica” ci assiste con l’evoluzione stellare, l’espansione dell’universo, le leggi della fisica, le costanti universali, e molto altro; e ci regala un meraviglioso panorama cosmico che si estende per miliardi di anni luce. Oltre, non sappiamo. La scienza non dimostra Dio, ma ci mette davanti agli occhi un universo che è segno di un mistero che ci supera infinitamente. Questo credo che Salvatore, il mio amico barbiere, lo apprezzerebbe.

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