Foto Ansa

Il santo archiviato

Sergio Belardinelli

Mai come in quest’anno di pandemia è necessario riscoprire l’insegnamento sull’Europa di Giovanni Paolo II. In ballo c’è la tenuta dello stato liberale e democratico

L’Europa ha smarrito se stessa; ha smarrito il legame con le proprie radici cristiane, indebolendo così l’ideale antropologico universale che ha generato a tutti i livelli la sua identità: questo uno dei richiami costanti del pontificato di san Giovanni Paolo II. Mai come oggi l’Europa e il mondo avrebbero bisogno dell’anima europea, delle pratiche politiche, istituzionali, civili, religiose che essa è stata capace di generare, e mai come oggi l’Europa sembra invece alla deriva. Sintomatico dunque che il centenario della nascita di questo grande Papa cada proprio nell’anno della pandemia, certamente uno degli anni più drammatici della nostra storia. Si direbbe un monito all’uomo europeo a uscire dal suo torpore, a ritrovarsi e magari a diventare di nuovo un punto di riferimento per il mondo intero.

 

Proprio come seppe fare san Giovanni Paolo II con gli orrori e le menzogne del XX secolo, anche noi, nella crisi e nello spaesamento che attanagliano il nostro mondo, dovremmo saper tessere il filo della speranza. L’uomo che confida in Gesù Cristo, questo un po’ il cuore dell’insegnamento di san Giovanni Paolo II, ha ancora e sempre la possibilità di riscattarsi. Non c’è guerra, non c’è miseria, non c’è oppressione o disperazione che possano intaccarne la grande, incommensurabile, unica e irripetibile dignità. E’ questo che, dal momento della sua elezione a sommo pontefice, san Giovanni Paolo II è andato gridando ai quattro angoli della terra. A partire dalla centralità di Gesù Cristo, il “Redentore dell’uomo”, egli ha come rimesso in moto una grande opera evangelizzatrice incentrata non a caso su quelli che sono da sempre i luoghi privilegiati dell’umano: il lavoro, la famiglia e, soprattutto, la cultura.

 

“In Gesù Cristo – si legge al n. 8 della Redemptor Hominis – il mondo visibile, creato da Dio per l’uomo – quel mondo che, essendovi entrato il peccato, ‘è stato sottomesso alla caducità’ – riacquista nuovamente il vincolo originario con la sorgente divina della Sapienza e dell’Amore”. Si tratta pertanto di saper riannodare in ogni ambito della vita questo “vincolo originario”, di saper ricondurre ad esso il senso più profondo della storia del mondo e della storia personalissima di ciascuno di noi. Questo il metodo della poderosa azione pastorale di san Giovanni Paolo II: una sintesi di fede e vita, realizzata soprattutto nella sua persona, alla luce della quale egli ha affrontato i grandi problemi del suo e del nostro tempo, richiamando l’Europa a non dimenticare mai questo suo imprescindibile nucleo identitario.

 

Se muore la fede cristiana, rischia di morire anche l’uomo europeo. Si tratta quindi di impedire che parole come universalismo, dignità, libertà, bellezza, verità, lo stesso Dio, che costituiscono intimamente la cultura europea, diventino semplicemente tante stantie ripetizioni di un originale che non è più capace “di destare un’effettiva comprensione”, come direbbe Husserl. Per questo san Giovanni Paolo II ha insistito tanto sulla “nuova evangelizzazione” dell’Europa, sulla necessità di rilanciare l’umanesimo cristiano, anzi l’uomo cristiano, nel cuore dell’Europa, dall’Atlantico agli Urali, in vista della possibilità che il Vecchio continente torni a giocare un ruolo decisivo sullo scenario mondiale. Encicliche come Laborem Exercens, Sollecitudo Rei Socialis, Centesimus Annus, Familiaris Consortio, Mulieris Dignitatem, Veritatis Splendor, Evangelium Vitae, Fides et Ratio o la Novo Millennio Ineunte rappresentano non soltanto il più rigoroso svolgimento dei temi del Concilio Vaticano II e quindi della millenaria tradizione della chiesa, ma forse, cosa piuttosto insolita, anche uno dei punti culturali più alti raggiunti dalla cultura europea della seconda metà del secolo scorso. Il filosofo Wojtyla conosceva bene gli errori e i drammi che collegano la cultura moderna alle tragedie totalitarie; ma sapeva altrettanto bene che il più grande di quegli errori continua a persistere ancora oggi; anche la nostra cultura sembra pervasa da una sorta di delirio che non le consente di riconoscere alcun limite al proprio potere; anche la nostra cultura è pervasa dalla crisi della verità, la prima e più evidente manifestazione di indisponibilità (non dipende da me che una frase sia vera o falsa), nonché dalla convinzione che l’idea di verità contrasti addirittura con la libertà. E questo, stante il potere enorme che scienza e tecnica pongono ormai nelle mani dell’uomo, rischia di dispiegarsi di nuovo contro l’uomo. In ballo non ci sono soltanto le cosiddette tecnologie genetiche e della riproduzione umana, i big data o questioni drammatiche come l’immigrazione. In ballo c’è la tenuta stessa di quella che, insieme alla ragione e alla libertà, è certamente una delle eredità più preziose della cultura moderna: lo stato liberale e democratico di diritto.

 

L’indicazione di san Giovanni Paolo II in proposito è inequivocabile: se vogliamo salvare la nostra civiltà dalla dissoluzione, dobbiamo anzitutto sottrarla alla sua alleanza con il relativismo; la ragione umana non può rinunciare alla verità; occorre riscoprire il senso di una verità che possa costituire anche un “limite” alla nostra disponibilità, altrimenti le prime vittime di questo potere illimitato saremmo proprio noi stessi, la nostra dignità e libertà. Dal punto di vista di questo grande Pontefice tutto ciò significava l’urgenza di una vigorosa ripresa dell’esperienza di fede. In questo modo, riannodando il vincolo dell’uomo con Dio, quindi con la verità, trovo assai significativo, e per certi versi persino provocatorio, che san Giovanni Paolo II finisca per proporsi come il paladino più autentico dei principali valori della civiltà moderna – la ragione, la libertà e la democrazia liberale –, restituendoli alle loro radici cristiane, mitigando nel contempo l’astio di certa cultura cattolica nei confronti della modernità e di certa modernità nei confronti della chiesa cattolica. E’ appena il caso di precisare che sono proprio questi i temi fondamentali di almeno tre sue encicliche: Veritatis Splendor, Evangelium Vitae e Fides et Ratio.

 

In questo senso l’opera di san Giovanni Paolo II può essere vista anche come una forma di restituzione dell’Europa a se stessa. In forza del principio antropologico (e teologico) che la permea, abbiamo a che fare con una realtà spirituale che non è rigida o escludente, bensì strutturalmente aperta alla novità e alla libertà. Al pari dell’uomo europeo, il quale, pur essendo una realtà unica e irripetibile, geneticamente e culturalmente ben determinata, trascende sempre se stesso e le condizioni biologiche e socio-culturali della sua esistenza, allo stesso modo la cultura europea è sempre proiettata oltre se stessa. Nella cultura europea identità e libertà sono un tutt’uno. In virtù della trascendenza dell’uomo, l’identità si esprime come libertà e la libertà si esprime come consapevolezza di un legame identitario. Ma oggi è proprio questo aspetto di trascendenza che sembra essersi indebolito, indebolendo così anche le nostre libertà individuali.

 

D’altra parte che significato possono avere la trascendenza dell’uomo e la sua libertà, se l’uomo è soltanto il riflesso del suo ambiente naturale e sociale o, peggio ancora, l’ultimo stadio di sviluppo di antiche comunità batteriche? Che significato può avere la libertà, se, in suo nome, i desideri vengono ormai spacciati per diritti?

 

Per una sorta di eterogenesi dei fini, è come se l’enorme estensione dello spazio delle nostre libertà anche ad ambiti ritenuti fino a ieri indisponibili (si pensi alle tecnologie della vita) sia stato pagato con una crescente irrilevanza delle nostre libertà più tradizionali, prime fra tutte la libertà politica e quella economica. La pandemia di questi mesi ci ha dato ulteriori segnali in tal senso. Non siamo più capaci di gestire in modo ragionevole la nostra sacrosanta libertà e la responsabilità che abbiamo di fronte agli altri, per cui tutto si confonde in pietosi dibattiti tra diverse tifoserie a tutto vantaggio dei potenti di turno.

 

Per cambiare registro, ci vorrebbe una sorta di catarsi intellettuale e morale, un investimento straordinario soprattutto in termini educativi, altro tema assai caro a san Giovanni Paolo II, del quale però non mi sembra che vi sia adeguata consapevolezza. Un altro naufragio dell’Europa e dell’uomo europeo, incapaci di essere all’altezza di se stessi. Come ha scritto Milan Kundera, “europeo” oggi è “colui che ha nostalgia dell’Europa”. Auguriamoci che almeno la pandemia, Hegel direbbe la prossimità con la morte, ci aiuti a trasformare questa nostalgia nel propellente per una rinascita, per una riumanizzazione dell’Europa, nel senso indicato da san Giovanni Paolo II.