La veste di Dio

Fabiana Giacomotti

Non è un abito, è il simbolo di un voto. Per interpretare la fede di due nuove suore la moda si mette a disposizione della religione

Poco informate nonostante i molti tentativi di arrivare alla cerimonia pronte e ben disposte a capire meglio, sabato scorso credevamo di essere state invitate al Pontificio Seminario Romano Maggiore ad assistere alla vestizione di due suore di un nuovo ordine allo scopo di ammirarne la tonaca che era stata disegnata da uno dei massimi costumisti del cinema nazionale, caro amico. Ci sembrava già un’occasione piuttosto rivoluzionaria nel 2020 in cui Joanne K. Rowling deve difendersi dagli attacchi di transfobia per aver detto, proprio come Simone de Beauvoir che però le nuove generazioni tendono a non aver letto, che per dirsi donna non basta sentirsi tali o tanto meno infilarsi una gonna e un paio di scarpe col tacco, cioè fare cosplay.

 

Quella che san Giovanni Paolo II definiva come la “massima espressione del genio femminile”, e cioè la consacrazione a Dio

Pensavamo di assistere a quella che san Giovanni Paolo II definiva come la “massima espressione del genio femminile”, e cioè la consacrazione a Dio, teoria sulla quale si può molto dissentire ma anche essere molto d’accordo se si pensa che lungo tutta la storia antica e moderna dell’occidente la carriera ecclesiastica è stata l’unica aperta alle donne e anche l’unica via possibile per smarcarsi da stupri di guerra, matrimoni forzati, gravidanze a ripetizione e sempre a rischio setticemia, impossibilità di studiare o tanto meno di continuare a farlo in età adulta, cioè il modo migliore per mettersi al riparo da tutta una serie di costrizioni alle quali proprio non si capisce perché ambisse tanto Marianna de Leyva, la Monaca di Monza, invece di immaginarsi madre badessa come la sua famiglia le suggeriva. Se pensiamo a suor Juana de la Cruz, massima poetessa di lingua spagnola del Seicento, o alla pur combattuta suor Arcangela Tarabotti, ci sembra che in certi momenti storici il convento sia stato l’unico luogo possibile per evitare di trasformarsi in macchine riproduttive. Dunque eravamo lì all’ombra di san Giovanni in Laterano, e credevamo di goderci il bel giardino in cui si dice passeggiò anche san Francesco prima della benedizione di Papa Innocenzo III all’ordine (le nostre religiose non erano lì per caso, naturalmente) e di ascoltare un po’ di inni ben cantati in mezzo a una folla di coppie giovani con molti bambini. Invece eravamo state invitate al matrimonio mistico e a una prima presa di potere nell’ambito della Prelatura della Santa Croce, cioè dell’Opus Dei, di due star della predicazione mariana, una in particolare, come ci ha fatto capire Elena Sofia Ricci sussurrandoci fra un luccicone e l’altro come suor Benedetta Luchi, ex avvocato dello Studio Gianni, Origoni, Grippo, Cappelli&Partners e animatrice di feste a Ibiza (“faceva gli schiuma party” ci ha mormorato complice, e noi zitte perché siamo arrivate alla nostra età ignare anche di questo e siamo dovute andare a informarci su internet) le abbia cambiato la vita e sia fonte di ispirazione costante per il suo personaggio di suor Angela nel serial “Che Dio ci aiuti”.

   

Due donne con la tonaca color ceruleo sedute in mezzo al prato mentre attendevano la benedizione del cardinale

A quel punto abbiamo osservato meglio le due donne con la tonaca color ceruleo sedute in mezzo al prato mentre attendevano la benedizione del cardinale vicario Angelo De Donatis che si appoggiava al pastorale: una più giovane, con gli occhi brillanti e il sorriso a fior di labbra, vista molte volte nei programmi della Rai, che era ovviamente Benedetta, e una più anziana e corpulenta, che ci hanno indicato come Luce e che, dopo qualche ricerca, abbiamo identificato in Luciana Acquafresca, ex assistente presso la presidenza del Consiglio, pellegrina di lunga data ai luoghi mariani e devotissima di Maria Elena Boille, la mistica dalla vita interessante a cui, par di capire, promise la fondazione dell’ordine. Luce ha tenuto duro (“a ognuno di noi dovrebbe rassicurare il fatto che la Chiesa vada molto lentamente nel discernere”, dice in una delle sue interviste televisive), è stata ricompensata e ora che la consacrazione e il riconoscimento sono avvenuti può attendersi che le venga assegnato un luogo adatto per svolgere la propria missione e iniziare a raccogliere le postulanti e le novizie, tutte ragazze che nell’accezione comune si definiscono “carine”, cioè di buona famiglia, ottimi studi e gradevole aspetto, che fino a oggi hanno frequentato l’appartamento della congregazione in via Merulana. Così abbiamo capito chi dia le battute a suor Angela e suor Costanza del serial della Luxvide che fra pochi giorni inizierà le riprese della sesta stagione a Trastevere.

  

Eccole lì, gli originali di Elena Sofia Ricci e Valeria Fabrizi che fondavano il loro ordine dopo aver atteso l’occasione giusta, cioè viatici e fondi, rispettivamente per quindici e per quarant’anni. Abbiamo anche capito, noi che ci fregiamo – a questo punto forse immeritatamente – del titolo di teoriche del costume, che per un nuovo ordine, per di più secolare come questo dell’Opera del Trionfo del Cuore Immacolato di Maria, la veste è una questione fondamentale, un parametro che esula dall’identità per entrare in quello ipoteticamente eterno della veste nuziale che si rinnova ogni giorno, insieme ai voti.

 

L’abito è un complessissimo sistema di segni che deve irradiare tutti gli elementi distintivi della vocazione dell’ordine

Non è un abito, neanche la versione al massimo grado dell’abito di nozze come comunemente si crede per via di certe furbacchione che si sono prese i titoli dei giornali facendosi consacrare in abito di pizzo bianco da sposa laica. E’ invece un complessissimo sistema di segni che, partendo come un quadro rinascimentale da un punto di fuga, deve irradiare nella linea, nel colore e nei dettagli tutti gli elementi distintivi degli scopi e della vocazione dell’ordine, oltre a rispondere al consiglio evangelico della castità e dell’obbedienza. Ma deve anche essere pratico ed elegante, perché non si può di certo indossare per tutta la vita un abito che non ci piace o ci è di impaccio o che magari respinge postulanti e fedeli (per dire, mentre eravamo lì a festeggiare la professione di fede di “Bene e Luce”, ci siamo avvicinate quatte a un gruppetto di sorelle della Famiglia di Maria per estasiarci sulla loro tonaca di gabardine color écru con gonna a pieghe piatte, nastro sul lato e doppia piega sulle spalle che sembrava un modello di Prada: ci è pure scappato un modaiolissimo “divine” dopo il quale volevamo andare a sotterrarci).

  

Essendo l’Opera mirata all’ascolto e per così dire alla risoluzione dei problemi del questuante, il punto di fuga della veste di Bene e Luce e delle loro future adepte è il nodo mariano che compare anche nel cingolo francescano e al centro di un quadro devozionale tardo barocco tedesco, la Virgen Maria “knotenlöserin” appunto, opera di Johann Georg Melchior Schmidtner e conservato ad Augusta. Venne commissionato da un ricco prelato locale, tale Hieronymus Ambrosius Langenmantel e mostra la Madonna che scioglie i nodi di un filo porto da un angelo da un lato, mentre dall’altro un secondo angelo recupera il filo libero, chiara simbologia del ruolo della Vergine nell’intercessione e nell’ascolto delle suppliche. Bene e Luce portano il nodo sul capo, nella forma di una doppia piega asimmetrica del velo che, forse anche per via del colore con cui è stata tinta la specifica “tela vaticana” della veste, lanetta semplice si intende, per tutti i giorni, le rende però inaspettatamente simili alla ragazza con l’orecchino di perla di Vermeer. Taglio e costruzione geometrica e rigorosissima, enfatizzata dal cingolo a fascia e nascosto per dare volume enfatizzando la modestia sessuale, ricordano invece le vesti di certi monaci in preda all’estasi di Zurbaran, che nel linguaggio della moda e del costume equivalgono a un riferimento preciso, e cioè a Cristobal Balenciaga. In sintesi, un lavoro intrigante, peraltro non ancora finito perché al ritorno dal ritiro di questi giorni le due dame di Maria, come vogliono farsi chiamare mostrando anche un discreto occhio per la comunicazione e il marketing, dovranno farsi approntare mantelli invernali e altri accessori. Con il produttore del serial Luca Bernabei che dice di aver incontrato Benedetta quasi per caso, perché cercava un consulente per dare supporto a Elena Sofia Ricci nella costruzione del personaggio e alcuni amici gli hanno suggerito di andare a cercare l’ex avvocata per l’appunto nell’appartamento alle spalle di santa Maria Maggiore dove disgraziatamente si viene ammessi solo per passaparola (abbiamo provato a cercare un indirizzo mail sul sito dell’Opera del Cuore Immacolato di Maria, abbandonato e dall’aria polverosa: no way), ci siamo detti quanto debba aver penato il costumista Alessandro Lai, che pure ricostruisce l’ambiente dei Medici per effettivi fino a quattrocento fra attori e comparse, per interpretare il pensiero e i desideri di due donne che non hanno chiesto niente ma che si aspettavano qualcosa oltre il tutto; sostanzialmente, l’abito della trascendenza. Aver chiamato per farlo il costumista di riferimento di Ferzan Ozpetek dimostrava una certa dose di eccentricità, che per la nostra formazione laica indica flessibilità intellettuale; che a finalizzarlo sia stata invece una sarta cresciuta in istituti religiosi che ogni giorno veste gli attori del cinema più capricciosi come Giuseppina Angotzi dimostra la loro cura tutta femminile per i dettagli. Sarebbe interessante capire se, come sospettiamo perché non ci sono molte pubblicazioni in proposito, tutti i fondatori e le fondatrici degli ordini ne abbiano anche disegnato la veste. Quella delle brigidine, con la corona che sembra ispirata a un’armatura templare, ci è sempre piaciuta molto, per esempio, e avendone un convento praticamente sotto casa abbiamo provato a informarci tempo fa, ottenendo però informazioni vaghe.

   

Non c’è un solo studio critico e comparativo serio sul tema degli abiti femminili, nonostante la quantità di ordini, congregazioni, case religiose

Incredibilmente, se si considera la quantità di ordini, congregazioni, associazioni, case religiose di ogni confessione sparse nel mondo, non c’è un solo studio critico e comparativo serio sul tema: voleste informarvi sul rapporto fra religione e abito trovereste una ricchissima bibliografia sull’impatto sociale e morale della teologia sui costumi, e si intende quasi esclusivamente su quelli femminili. Qualche anno fa, festeggiando lo sfarzo ecclesiastico del Papa emerito Benedetto XVI, che per il sistema della moda fu una sferzata di energia e di rassicurazione, sul magazine Vice comparve un’intervista a Roberto Maurelli, “sartoria forniture ordini cavallereschi”, e a Elisabetta Bianchetti delle omonime manifatture specializzate in abiti per religiose, che raccontava la propria carriera di designer di abiti “ispirati a Giotto” e di supporto sartoriale a stilisti come Calvin Klein, quando si era voluto cimentare nella realizzazione di una casula per ragioni che non sappiamo e che non sono state svelate. Poca cosa. Ci risulta che Lai sia il primo ad aver disegnato una veste che sarebbe stata consacrata, ma si sa che quasi ogni designer, dallo stesso Balenciaga ai Dolce&Gabbana, abbiano ideato e talvolta ricamato a mano pianete, casule e zucchetti per farne dono a papi e alti prelati. Sono stati pubblicati centinaia di libri su uniformi militari, giacche diplomatiche, frac da direttori d’orchestra, i cosiddetti “abiti del potere” e come se quello religioso non lo fosse, ma nessuna analisi seria sulle vesti talari se non un volume edito dal Vaticano due anni fa sulla raccolta delle vesti papali di cui alcune, come forse ricorderete, vennero prestate ad Anna Wintour per la famosa mostra del Metropolitan “Heavenly Bodies”, corpi celesti, che fece saltare la mosca al naso a mezzo clero cattolico per la cafonissima reinterpretazione che delle stesse diedero Rihanna e qualche altra star al ricevimento di inaugurazione. Sulle vesti femminili, comunque, zero ricerca e nessuna analisi, ad eccezione di una guida illustrata all’abito monacale e religioso-secolare di quaranta diversi ordini scritto dalla teologa dell’Università di Cambridge Veronica Bennett, migliore quasi nel titolo (“Looking good”) che nella trattazione. Insomma, Bene e Luce ci hanno dato un’idea, che crediamo sia il loro scopo. Quando finalmente siamo riuscite a trovare il loro numero di telefono, ci hanno fatto dire di interpretare pure quello che avevamo visto secondo il nostro sentire e la nostra ispirazione. Vi abbiamo riconosciuto del metodo.

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