Papa Francesco a Dacca (foto LaPresse)

Il passaggio a Oriente di Papa Francesco

Massimo Morello

Il Pontefice sta per concludere il suo viaggio in Birmania e Bangladesh. L'incontro con Aung San Suu Kyi, la questione dei rohingya, la necessità di mediare tra i due stati e “il fantasma” di Pechino

Yangon. Nel centro storico di Yangon, attorno all’isola di guglie dorate della pagoda Sule, popolata da monaci, indovini, cambiavalute, gente che dorme all’ombra dei budda e turisti, vivono dèi, fedeli e uomini di fede, mercanti e pover’uomini. In una passeggiata lungo la strada 29, tra palazzi coloniali in rovina, scopri un tempio hindu dove un gentile bramino ti benedice davanti alla statua di Parvati, consorte di Shiva, senza chiedere un’offerta. Dopo pochi passi, in un tempio jainista dalla facciata decorata da immagini smaltate di divinità, un anziano maestro ti consiglia di riflettere sulla vacuità del tuo andare. Di fronte, in un piccolo ristorante noto per le sue zuppe, chiacchierano una suora cattolica e una signora dalle guance coperte di thanaka – crema cosmetica vegetale repellente per gl’insetti e attrattiva per gli uomini - che t’invita alla celebrazione nel suo tempio “americano” di rito mormone. Più avanti ancora un campanile verde acqua che sembra appoggiato al retro di un edificio fatiscente, segnala l’oasi della chiesa cattolica di San Giovanni Battista. Al temine della via, di fronte al mercato di Bogyoke, nella moschea sunnita di Dargah, un commerciante che ha terminato le sue preghiere, si lamenta degli affari. “Abbiamo dovuto rinunciare a esporre la merce per strada” dice.

 


   

Una bambina tra i fedeli della messa celebrata da Papa Francesco a Dacca in Bangladesh 


  

La strada 29 è un po’ il simbolo della Birmania. Là lo stato dell’Unione del Myanmar lo chiamano ancora così. Nei giorni della visita del Papa, tra il 26 e il 30 novembre, una passeggiata lungo la 29 diventava quasi un pellegrinaggio alla ricerca di quella “Trascendenza” e “compassione” ricorrenti nei discorsi del Pontefice.

Poi il 30 novembre il Papa è partito per il Bangladesh, e nel pomeriggio del 1 dicembre ha incontrato una delegazione di profughi rohingya. A quel punto la compassione si è materializzata in poche frasi e in una parola. “Vi chiedo perdono per l’indifferenza del mondo… La presenza di Dio oggi anche si dice rohingya” ha detto il Papa. E’ stata la prima volta che il Papa ha pronunciato la parola rohingya, divenuta il tabù e il totem di questo viaggio. Lo ha fatto in un discorso non ufficiale, dopo aver testimoniato in molti modi la sua disponibilità a dialogare con tutte le parti. Probabilmente era inevitabile. Forse anche questa affermazione fa parte di un disegno più complesso.

 

Il 1 dicembre, arrivato in Bangladesh, Papa Francesco
ha incontrato una delegazione
di profughi rohingya ai quali ha detto: “Vi chiedo perdono per l’indifferenza del mondo”

Quella che segue è un’analisi di ciò che è accaduto prima, che a questo punto potrebbe rivelarsi vera e falsa al tempo stesso. Per capirlo bisognerà attendere.

“La grande sfida dei nostri giorni è aiutare gli uomini ad aprirsi al trascendente. A riuscire a guardare nel profondo di loro stessi per conoscersi e riconoscere come sono interconnessi” ha dichiarato il Santo Padre nell’incontro di mercoledì con il venerabile Bhaddanta Kumarabhivamsa, presidente del Maha Nayaka, il concilio della comunità buddhista. In quell’incontro, mentre molti osservatori occidentali commentavano divertiti la postura dei monaci, accoccolati sulle poltrone con le gambe raccolte sotto il corpo, Papa Francesco ha rilevato le similitudini tra buddismo e cristianesimo nel guidarci verso la trascendenza attraverso la compassione, in quanto empatia. A guida di questo percorso ha citato il Dhammapada, testo sacro del codice buddista: “Sconfiggi la rabbia con la non-rabbia, sconfiggi il malvagio con la bontà”. Un brano che ha messo a confronto con una preghiera attribuita a San Francesco d’Assisi: “Dov’è odio che io porti l’amore, dov’è offesa che io porti il perdono”.

  

 

“Da un punto di vista strettamente filosofico, tra buddismo e cristianesimo ci sono profonde differenze. Il buddismo è una religione che nega la religione” ha dichiarato al Foglio Sua Eminenza Charles Maung Bo, primo cardinale birmano creato da Papa Bergoglio nel 2015. “Ma noi possiamo confrontarci con le quattro brahmavihara del buddhismo (i “quattro incommensurabili”): l’equanimità, la benevolenza, la compassione e la gioia compartecipe”.

 

Se la Birmania è indubbiamente un terreno di sottili confronti spirituali, il Papa è venuto in Myanmar come “leader religioso”, altra espressione che ha ripetuto spesso, cosciente della possibilità d’influenzare la storia. E’ una sorta di duplicità che appare incomprensibile a molti, specie a coloro che si ritengono “illuminati”. Per loro il Papa avrebbe dovuto prendere una posizione decisa nei confronti del governo. Avrebbe dovuto pronunciare quella parola che in Birmania è impronunciabile e che in Occidente è il nuovo mantra di chi è alla perenne ricerca di una giusta causa: rohingya. Ma il Papa non è il rappresentante di una Ong, un accademico che scrive nell’aria serena di un campus, un politico in cerca di consensi, né tantomeno un attore o un cantante che testimonia il suo impegno come prova della sua esistenza.

  


  

 L'incontro tra Papa Francesco e Aung San Suu Kyi


  

La minoranza musulmana stanziata nel nord dello stato del Rakhine, al confine col Bangladesh, è ed è stata perseguitata, oggetto di violenze ricorrenti, devastanti e per decenni pressoché ignorate. Poi, dopo l’ennesima ondata di violenza, in un crescendo di accuse e narrazioni di orrori a volte incontrollati, la questione rohingya è divenuta virale. Lo stesso Papa Francesco, in un discorso prima dell’Angelus del 27 agosto, ha denunciato “la persecuzione dei nostri fratelli rohingya”. “Genocidio” e “pulizia etnica” sono state e sono le accuse rivolte al governo del Myanmar. Lanciate da Al Jazeera, riprese da governi di paesi islamici quasi a dimostrazione che il terrore non è solo di matrice musulmana, rilanciate da molti media britannici che, forse inconsciamente, vogliono assolvere l’Inghilterra da un problema creato durante il periodo coloniale (secondo un’opinione diffusa, i rohingya sarebbero stati portati in Birmania dal Bangladesh come forza lavoro). La “pulizia etnica” è stata denunciata anche dal segretario di stato americano Rex Tillerson: il suo presidente non è un paladino dei diritti umani, ma in questo caso forse vuole dimostrare il fallimento della politica asiatica di Obama, che in Birmania e Aung San Suu Kyi aveva trovato sostegno.

La Signora, a sua volta, in quanto Consigliere di Stato del Myanmar, è stata ritenuta complice di Tatmadaw, le forze armate, responsabile diretto delle atrocità. I suoi discorsi sono stati mal tradotti e interpretati, le sue spiegazioni considerate prove a carico. “The Lady”, icona di democrazia e ribellione, è divenuta l’incarnazione dell’ignavia.

 

Papa Francesco, probabilmente, magari a malincuore, ha ascoltato i consigli del cardinale Bo, che vedeva minacciate le relazioni diplomatiche tra Santa Sede e Myanmar annunciate nel maggio scorso, durante la visita in Vaticano di Aung San Suu Kyi. Da quelle relazioni dipende il destino dei settecentomila cattolici in Myanmar. Soprattutto perché la maggior parte di loro (il 70% secondo stime per difetto) fa parte di altre minoranze etniche, quali i karen, i kachin, gli shan, in conflitto col governo centrale sin dall’indipendenza del paese. I conflitti tra milizie etniche e Tatmadaw hanno fatto migliaia di morti, devastato comunità e rischiano di trasformare la Birmania nei Balcani del sud-est asiatico. “Il Myanmar deve affrontare molte crisi umanitarie” ha dichiarato al Foglio il Cardinale Bo. “La crisi con i musulmani del Rakhine è una di queste. Anche i kachin, i kayah, i karen e gli shan si trovano in situazioni di conflitto, subiscono deportazioni”.

 

 

La questione rohingya, quindi, potrebbe fare detonare una crisi che Aung San Suu Kyi sta cercando di controllare riproponendo la versione 2.0 della conferenza di Panglong. La prima si svolse in quella città dello stato Shan nel 1947, organizzata da suo padre, il generale Aung San. Si concluse con una sorta di tregua che si infranse con l’assassinio di Aung San. L’obiettivo nazionale dei successivi governi militari sembrava quello di un’etnocrazia dominata dai Bamar, il gruppo maggioritario, cui appartengono tutti gli alti ranghi di Tatmadaw e i pochi oligarchi che controllano l’economia (legale e, soprattutto, occulta).
Nel 2016 Aung San Suu Kyi ha riproposto la conferenza di Panglong, ottenendo risultati modesti ma creando le basi per accordi futuri. Se si schierasse decisamente per i rohingya perderebbe il consenso della popolazione (cattolici compresi) e i potenziali accordi di Panglong salterebbero. I primi a farne le spese sarebbero proprio i rohingya. In Rakhine, infatti, dove già opera la milizia islamica dell’Arakan Salvation Army (l’Arsa, i cui attacchi sono stati la scintilla dell’ultima crisi), sta rafforzandosi l’Arakan Army, una milizia buddhista collegata al Kachin Independence Army.

 

Durante l'incontro con il concilio della comunità buddhista il Pontefice ha rilevato le similitudini
tra buddismo e cristianesimo
nel guidarci verso la trascendenza attraverso la compassione

In questo caos etnico alimentato da traffici di droga, armi e giada, i militari avrebbero nuovamente mano libera. Peggio: oltre a detenere il potere in modo indiretto (come accade oggi, grazie a una costituzione che si sono fatti apposta), lo avrebbero democraticamente, vincendo le elezioni dell’anno prossimo. A ben pensarci, o a pensar male, i più contenti di tutti se il Papa avesse pronunciato la parola rohingya sarebbero stati proprio i militari. In fondo era stata Aung San Suu Kyi a invitarlo.
Che la Signora disponga di un margine di manovra molto ridotto, come suggerisce una fonte del Foglio, lo dimostra l’assassinio di Ko Ni, musulmano, consigliere legale della National League for Democracy, il partito di Aung San Suu Kyi, nel gennaio scorso. Molti hanno attribuito l’azione agli estremisti buddisti, ma per la fonte del Foglio Ko Ni è stato ucciso perché stava elaborando un progetto di riforma costituzionale che avrebbe potuto limitare il potere dei militari.

 

Non è un caso, dunque, che in tutti i suoi discorsi in Myanmar Papa Francesco abbia citato la Conferenza di Panglong: il suo era un messaggio ben comprensibile da tutti i birmani (meno per gli occidentali) in sostegno della pace. Secondo gli osservatori più attenti il viaggio del papa in Myanmar è la riproposizione di quello compiuto in Colombia nel settembre scorso. “Per decenni la Colombia ha voluto la pace” disse il papa in quell’occasione. “Ma, come insegna Gesù, due parti che si avvicinano l’un l’altra per dialogare non sono sufficienti. Ci vuole anche l’intervento di molti altri attori in un dialogo rivolto a guarire dai peccati”. Messaggio da molti interpretato come proposta di mediazione. In Myanmar, nell’incontro con i monaci lo ha ribadito: “Sappiate che la Chiesa cattolica è un partner disponibile”.

 


 

 Papa Francesco al suo arrivo in Birmania 


 

Per altri ancora il viaggio papale in Myanmar è la prova di un “pivot to Asia” vaticano che tiene conto del futuro scenario globale e della crescita continua nel numero di battezzati (attualmente i cattolici in Asia sono circa 150 milioni), soprattutto in Sud-est asiatico. Un’area, inoltre, soggetta a crescente islamizzazione e obiettivo del nuovo Stato Islamico del Levante.
Della potenzialità di questo pivot s’è avuta prova durante la messa celebrata dal Papa mercoledì mattina nel parco di Kyaikkasan. Erano presenti oltre duecentomila persone. In pratica quasi un terzo dei cattolici birmani. Molti di loro erano arrivati a Yangon dopo un viaggio di giorni. Alcuni, per pagarsi il viaggio, avevano accettato un lavoro temporaneo in Cina. Come scrive Francesco Sisci (Il Foglio non può confermarlo) si è anche visto “un gruppo di persone vestite da preti che portavano una bandiera cinese. Di sicuro c’erano delegazioni thai, cambogiane, lao, filippine. La maggior parte in abiti tradizionali a dichiarare un’identità ben precisa. “Sono Chin” dice uno quasi offeso per essere stato scambiato per kachin, a dimostrazione di quanto siano fragili gli equilibri etnici in questa parte di mondo.

 

Al Foglio Charles Maung Bo, primo cardinale birmano creato da Papa Bergoglio nel 2015, ha spiegato che  “da un punto di vista strettamente filosofico tra buddismo e cristianesimo ci sono profonde differenze”

“Sto con il Papa e con Aung San Suu Kyi” dice un signore che ostenta un distintivo con la bandiera americana cui è sovrapposto il profilo della Birmania. Se n’è andato dal paese nel 1993, dopo l’ennesima repressione militare e si è rifugiato negli Stati Uniti. Tornato qui per la prima volta con tutta la famiglia, appare il testimone del “pivot” di Francesco. Lo conferma un alto prelato vietnamita: preferisce restare anonimo ma assicura che la situazione per i cattolici nel suo paese è in netto miglioramento. “L’attenzione del Papa è rivolta all’Asia” dice al Foglio anche il neo cardinale Lao Louis-Marie Ling Mangkhanekhoun, pur confessando che ha passato molto tempo a visitare le pagode di Yangon. 

 


 

 Incidente sfiorato per l'auto del Pontefice al suo arrivo in Bangladesh 


  

Il giorno seguente quella messa, Papa Francesco si è spostato a Dacca, capitale del Bangladesh. Un paese dove i cattolici sono trecentomila, lo 0.2 di una popolazione di 165 milioni di persone, l’87% musulmane. Dove le minoranze cristiane e hindu sono state vittime di numerosi attacchi (giorni prima un sacerdote è misteriosamente scomparso). Ma nemmeno qui ha pronunciato la parola rohingya. Si è riferito a loro come “rifugiati dallo stato del Rakhine”, lodando l’accoglienza offerta dal Bangladesh e gli sforzi per raggiungere un accordo. Chiaro riferimento al memorandum d’intesa con il Myanmar per il rimpatrio dei rohingya. Anche se non si sa come e quando potrà avvenire.

 

Probabilmente è stato proprio per non vanificare queste prime trattative che Papa Francesco non ha pronunciato quella parola. Forse anche qui si è diplomaticamente allineato con le posizioni di un’altra Signora, il primo ministro Sheikh Hasina Wazed. La Begum, questo l’appellativo per signore d’alto lignaggio, non è mai stata particolarmente sensibile al problema rohingya. Ora, pur avendoli accolti, teme che possano diventare pericolosi. “Il governo sospetta che l’Arsa, come altri gruppi militanti di rohingya in precedenza, possa aver sviluppato collegamenti con i partiti islamici locali” scrive Anthony Davis, analista di questioni asiatiche.

  

Come il Papa, un altro sostenitore delle trattative tra Myanmar e Bangladesh è la Cina che si è offerta come mediatore. Sarà una coincidenza ma mentre il papa è a Dacca e Aung San Suu Kyi è a Pechino, il “Global Times”, che dipende dal comitato centrale del partito comunista cinese, pubblica articolo sulla visita papale, dandone una valutazione positiva. Per qualcuno è un presagio.