Alexis de Tocqueville

La chiesa davanti alle valide ragioni morali della libertà economica

Robert A. Sirico

E’ più pericolosa l’ideologia del collettivismo che la diseguaglianza materiale. Un libro di Padre Robert Sirico

Pubblichiamo in anteprima uno stralcio di “A difesa del mercato. Le ragioni morali della libertà economica”, il nuovo libro di padre Robert A. Sirico edito da Cantagalli (17 euro) in libreria da giovedì. Padre Sirico ha cofondato nel 1990 il think tank americano Acton Institute for the Study of Religion and Liberty. “Nonostante i grandi benefici apportati dall’economia di mercato – scrive l’autore nella prefazione – su di essa circolano ancora idee sbagliate o se non altro inadeguate. Alcune di queste sembrano aver trovato voce nelle stesse dichiarazioni del Papa. Nella Evangelii gaudium Francesco scrive ‘Questa economia uccide’ riferendosi a un’economia che manca di ‘uno scopo veramente umano’ e in cui ‘l’idolatria del denaro regna’”. Il nono capitolo è dedicato al dibattito sui cambiamenti climatici, di cui lo stesso Pontefice ha parlato ieri duranta la visita alla Fao. “Cura dell’ambiente non significa necessariamente stato ipertrofico”, è il titolo scelto.

  


  

Molte persone considerano l’espressione “vocazione dell’imprenditore” un ossimoro, come dire “carità del parassita”. Ma la morale giudaico-cristiana offre una visione positiva del potenziale etico degli affari. In senso figurato, Dio è il primo “imprenditore”, il modello di tutta l’imprenditorialità, il creatore che è generoso nella sua creatività. Tuttavia, generalmente, le persone guardano agli affari con sospetto. Il presupposto non detto, persino di moltissimi progetti etici che riguardano l’impresa, è che ci sia qualcosa di essenzialmente sbagliato nel fare impresa – non che qualcosa nella pratica sia andato storto, per una ragione o per un’altra, ma che ci sia qualcosa di fondamentalmente empio negli affari stessi. Il mercato è una cosa talmente sospetta che occorre un’etica estranea per tenere sotto controllo il diavolo della Tasmania dell’avidità e dello sfruttamento. Se gli affari sono per loro natura fondamentalmente disonesti e distruttivi, ha senso che i burocrati politici li regolino al millimetro. E questo ovviamente presuppone che i burocrati, i pubblici ufficiali e i politici – essendo privi dal peccato originale degli affari – siano concepiti come esseri immacolati e non soggetti alle tentazioni o inclini agli errori.

 

Se vogliamo comprendere pienamente la persona umana, è necessario però un paradigma dell’economia diverso. Madre Teresa ci ha fatto intravedere il modo in cui dovremmo guardare ai temi economici quando – lei che non era né un’economista né una teologa – ha nondimeno demolito la nozione marxista di lotta di classe con una singola osservazione: “Non abbiamo nessun diritto di giudicare il ricco. Per quanto ci riguarda, ciò che desideriamo non è una lotta di classe, ma un incontro di classi, in cui il ricco salvi il povero e il povero salvi il ricco”.

Noi siamo più della caricatura dell’homo œconomicus. Noi non siamo semplicemente massimizzatori dell’utilità. L’individualismo radicale assunto come presupposto da così tanti economisti mondani è francamente un ritratto tronco dell’umano. (Non intendo il ruvido individualismo di un personaggio alla John Wayne, che si fa avanti e salva la città anziché esserne parassita. Questi uomini coraggiosi sono degli eroi, non individualisti radicali). Alcune persone vivono realmente vite dedite solo a se stesse, del tutto isolate e concentrate sulla ricerca del piacere, usando gli altri per questo scopo egoistico. Ma se il tuo sistema politico si riduce alla protezione e promozione di questo stile di vita – a spese delle istituzioni civili e della cultura che uniscono le persone in una comunità, rafforzandole e arricchendole – allora la società non rimarrà né libera né virtuosa a lungo.

Torniamo a questo punto alla profetica visione che Alexis de Tocqueville mise nero su bianco (…). Non mise in guardia dal dispotismo di un dittatore militare ma da una tirannia più insidiosa che temeva avrebbe preso piede, come dichiarò lui stesso, “proprio all’ombra della sovranità di questo popolo”. Questa era la visione di Tocqueville: “Io vedo una folla innumerevole di uomini tutti simili e uguali” e sopra di loro “si erge un potere immenso e protettivo che solo è responsabile di cercare il loro appagamento e vegliare sul loro destino. E’ assoluto, meticoloso, ordinato, previdente, gentile e disponibile”. Questo potere allo stato, diceva Tocqueville “stende le sue braccia sull’intera società, coprendo la superficie della vita sociale con una rete di regole insignificanti, dettagliate, complicate e uniformi” finché “riduce ogni nazione a nulla più che un gregge di timidi animali da soma con lo Stato come pastore”. Tutto questo suona terribilmente familiare. Abbiamo raggiunto davvero lo stato di tirannia che Tocqueville prevedeva? E’ questa la fine della libertà?

Per capire come poter ancora sfuggire alla fine della libertà in questo senso, è necessario indagare il fine della libertà – nel senso di mira o scopo. Inizialmente potremmo essere tentati di pensare che la libertà sia scopo e fine di se stessa. Ma la libertà, nonostante la naturale brama che gli uomini hanno per essa, non è uno scopo o una virtù in se stessa. Noi abbiamo la libertà per qualcosa. I milioni di persone che vivevano sotto il giogo del totalitarismo che dominava l’Europa centro-orientale, una volta liberati dal dominio comunista, hanno dovuto usare la loro libertà ritrovata per qualcosa. La libertà è una meta strumentale: una volta ottenuta è normale che ci si chieda “E adesso?”. Qual è la risposta a questa domanda? In definitiva, il fine della libertà deve essere la verità, e la Verità con la V maiuscola. Che cos’altro potrebbe essere degno di riempire questo vuoto? Per questo il ruolo delle istituzioni religiose nell’affrontare la crisi in atto nella nostra società va ben oltre il loro imprescindibile valore strumentale di fornitori di servizi sociali. Solo un’antropologia – una comprensione dell’uomo – radicata nella verità sulla sua natura e sul suo destino finale, può servire come corretto fondamento di una società fiorente. La verità è la meta della libertà ed è anche, da un punto di vista pratico, il necessario garante della libertà umana.

La fede, innanzitutto, ricorda alle persone i limiti dell’esistenza materiale e la loro destinazione finale. Ed è essenziale che ci venga ricordata la nostra destinazione ultima perché, da individui che siamo, impariamo ad organizzare la nostra vita insieme. Riconoscendo che il paradiso sulla Terra è impossibile, non perseguiamo modelli utopistici. Ma riconosciamo anche che ciò che facciamo qui contiene in sé i semi dell’eternità. Lo dicono bene queste righe di uno dei principali documenti del Concilio ecumenico Vaticano II: “Certo, siamo avvertiti che niente giova all’uomo se guadagna il mondo intero ma perde se stesso. Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo della umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione, che adombra il mondo nuovo”.

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