La chiesa contro la miopia europea sull'emergenza migranti

Matteo Matzuzzi

Dalle parole del Papa alle posizioni dei vescovi, la linea è chiara. Chiudere la rotta mediterranea peggiorerà la situazione

Roma. Alla chiesa non piace l’intesa tra l’Unione europea (con l’Italia in prima fila) e la Libia dell’instabile governo di Fayez al Serraj per la chiusura della rotta libica. Un muro, l’ennesimo, in mezzo al Mediterraneo, si suggerisce oltretevere. E’ l’idea di un’Europa che si chiude a riccio, che irrobustisce le frontiere e che, di riflesso, costringe centinaia di migliaia di disperati a rimanere bloccati tra i campi del Niger e la costa della Tripolitania. E a poco servono le rassicurazioni sul fatto che non vi saranno blocchi navali, anzi. Per padre Camillo Ripamonti, del Centro Astalli, la naturale conseguenza dell’accordo non si tradurrà in meno vittime in mezzo al mare, bensì nell’apertura da parte dei trafficanti di esseri umani di nuove vie ancora più pericolose per chi cerca rifugio in Europa. La linea in Vaticano è chiara, il Papa stesso l’aveva spiegata ancora una volta davanti ai giornalisti che l’intervistavano a bordo dell’aereo che lo riportava in Italia dopo il viaggio lampo in Svezia per la commemorazione del cinquecentesimo anniversario della Riforma luterana, lo scorso novembre: “Non è umano chiudere le porte, non è umano chiudere il cuore, e alla lunga questo si paga. Qui, si paga politicamente; come anche si può pagare politicamente un’imprudenza nei calcoli, nel ricevere più di quelli che si possono integrare. Perché, qual è il pericolo quando un rifugiato o un migrante – questo vale per tutti e due – non viene integrato? Mi permetto la parola – forse è un neologismo – si ghettizza, ossia entra in un ghetto. E una cultura che non si sviluppa in rapporto con l’altra cultura, questo è pericoloso. Io credo che il più cattivo consigliere per i paesi che tendono a chiudere le frontiere sia la paura, e il miglior consigliere sia la prudenza”.

 

Ancora di più, Francesco aveva detto nei suoi tre discorsi sull’Europa, a Strasburgo (al Parlamento europeo e al Consiglio d’Europa) e a Roma, ricevendo il Premio Carlo Magno. In quell’occasione, lo scorso maggio, Francesco aveva detto: “Sogno un’Europa in cui essere migrante non è un delitto, bensì un invito ad un maggior impegno con la dignità di tutto l’essere umano”. Prima ancora, intervenendo al Parlamento europeo, il Pontefice era stato ancora più chiaro: “L’Europa sarà in grado di far fronte alle problematiche connesse all’immigrazione se saprà proporre con chiarezza la propria identità culturale e mettere in atto legislazioni adeguate che sappiano allo stesso tempo tutelare i diritti dei cittadini europei e garantire l’accoglienza dei migranti; se saprà adottare politiche corrette, coraggiose e concrete che aiutino i loro paesi di origine nello sviluppo socio-politico e nel superamento dei conflitti interni – causa principale di tale fenomeno – invece delle politiche di interesse che aumentano e alimentano tali conflitti. E’ necessario agire sulle cause e non solo sugli effetti”. Qualche giorno fa, poi, parlando a proposito dell’intenzione di costruire un muro tra gli Stati Uniti e il Messico, il cardinale Peter Turkson, presidente del dicastero per la Promozione dello sviluppo umano integrale, aveva osservato che “non sono solo gli Stati Uniti che vogliono costruire i muri contro i migranti, accade anche in Europa”.

 

Un continente che vede la sua leadership divisa, tra chi (specie all’est) vuole riprendere il pieno controllo dei confini – e il presidente del Consiglio europeo, il polacco Tusk, è tra questi – e chi si mostra più disponibile all’integrazione, benché in forme non sempre chiare e senza nitide visioni programmatiche d’ampio respiro. Chi per anni ha portato avanti la battaglia per scardinare i muri del Vecchio continente alzati a protezione dello sterile orticello è stato il cardinale Antonio Maria Vegliò, già presidente del Pontificio consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti. Un anno fa, Vegliò – creato cardinale da Benedetto XVI nel 2012, nel suo penultimo concistoro prima della rinuncia avvenuta nel febbraio del 2013 – parlava non a caso di “un momento molto, molto triste per l’Europa”. In un’ampia intervista al Servizio d’informazione religiosa (Sir), il cardinale osservava che “ci sono paesi che dovevano accogliere e invece non lo fanno più, come la Germania. Altri che hanno sospeso il Trattato di Schengen. E’ una tristezza questa Europa. Posso capire – diceva – la necessità di fare una distinzione con i migranti economici, perché non siamo più l’Eldorado del passato, ma i profughi che scappano dalla guerra? Come si fa a non accoglierli?”.

 

Nessun buonismo di facciata, anzi: “Non è possibile accogliere tutti i migranti”, precisava lo scorso autunno, ribadendo però che “questo non può significare chiusura”. Anche perché, diceva, “più della metà dei rifugiati nel mondo ha meno di diciotto anni, mentre cinquanta milioni di bambini stanno vivendo la tragedia della migrazione e ventotto milioni sono stati costretti a fuggire per i conflitti”. Tradotto, “un bambino ogni duecento nel mondo è un rifugiato”. Quanto alla posizione della chiesa – osservata speciale soprattutto negli Stati Uniti, dove l’atteggiamento delle alte gerarchie episcopali verso l’Amministrazione di Donald Trump è guardato con attenzione quasi quotidiana – Vegliò chiariva che essa “non entra nel dibattito”, anche se “bisogna trovare un equilibrio tra il rispetto dell’identità e il rispetto dei diritti”. 

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.