La grande croce fatta costruire all'entrata del cimitero cristiano di Karachi da Parvez Gill

La gigantesca croce di Karachi che terrorizza i cristiani pachistani

Matteo Matzuzzi
Svetta alta nel cielo di Karachi, in Pakistan, la croce di cemento fatta costruire dal milionario Parvez Henry Gill, influente membro della locale comunità cristiana e – soprattutto – dotato di grandi risorse economiche. Racconta che è stato Dio a incaricarlo, apparendogli in sonno, di fare qualcosa per proteggere i cristiani dalla violenza e dai soprusi.

Roma. Svetta alta nel cielo di Karachi, in Pakistan, la croce di cemento fatta costruire dal milionario Parvez Henry Gill, influente membro della locale comunità cristiana e – soprattutto – dotato di grandi risorse economiche. Racconta che è stato Dio a incaricarlo, apparendogli in sonno, di fare qualcosa per proteggere i cristiani dalla violenza e dai soprusi. Solo che Dio gli ha detto – racconta Gill – di fare “qualcosa di diverso” e lui per mesi ha meditato, pregando e rimanendo alzato notti intere. Alla fine, decide di costruire “una grande croce, la più alta che sia mai stata realizzata nel mondo, in un paese musulmano. Sarà un simbolo di Dio, e ognuno che la vedrà sarà libero dalla paura”. Dopo settimane di lavori, le impalcature stanno per essere smontate, lasciando libera l’enorme costruzione con i suoi 43 metri. E anche se non è la più alta del mondo – il primato rimane alla Great Cross di St. Augustine, in Florida – è visibile in gran parte dei quartieri cittadini. Situata all’ingresso del Gora Qabaristan, il cimitero monumentale risalente all’epoca coloniale britannica, per il cinquantottenne Gill dovrà essere il simbolo della presenza cristiana in Pakistan, àncora di conforto per quanti meditano sulla  possibilità di scappare dal paese (la cui popolazione è costituita per il novanta per cento da musulmani e per l’uno e mezzo da cristiani) dove negli ultimi anni si sono moltiplicati i casi di intolleranza nei confronti di quanti non professano il culto islamico.

 

Ma il proposito del filantropo si è scontrato fin da subito con più di una resistenza. All’inizio, ai cento lavoratori assunti per l’impresa non fu detto cosa avrebbero contribuito a costruire, presentendo che qualcuno se ne sarebbe andato. Infatti, non appena dal cemento cominciarono a delinearsi i contorni di una croce cristiana, venti muratori musulmani lasciarono il cantiere, “in segno di protesta”. Molti altri, però, precisa subito Gill, sono rimasti, come Mohammad Ali, che lavora “quattordici ore al giorno in segno di riconoscenza” nei confronti del padre di Parvez, il novantasettenne Henry, che lo aiutò con la nascita dei suoi sette figli e non lesinò mai quanto a medicine per la sua famiglia. Ma i dubbi e la contrarietà maggiori sono state quelle della comunità cristiana locale. L’ex direttore delle Pontificie opere missionarie in Pakistan, padre Mario Rodrigues, diceva tempo fa alla Stampa che “un monumento del genere può essere interpretato come volontà di dominio e istigare le reazioni dei gruppi radicali islamisti”.

 

[**Video_box_2**]Molti fedeli e frequentatori del cimitero, addossato lungo una delle vie più trafficate della megalopoli asiatica, sono terrorizzati dall’idea di divenire bersaglio facile per rappresaglie da parte dei terroristi. Il ricordo della strage in una chiesa di Peshawar, nel 2013, è ancora vivo. Allora, un attentatore suicida si fece esplodere nella navata, causando la morte di più di cento persone. Lo scorso novembre, una coppia di cristiani fu bruciata viva una coppia di ventenni, sessanta chilometri a sud di Lahore, perché accusati di aver dato alle fiamme alcune pagine del Corano. E i segnali, anche senza gesti eclatanti a far da cornice, continuano a manifestarsi. L’ultimo in ordine di tempo risale alla metà d’agosto, quando l’amministrazione del carcere di Faisalabad, nel Punjab, ha deciso di interrompere la celebrazione delle messe domenicali per i detenuti di fede cristiana, nonostante la costituzione pakistana riconosca il diritto per ogni cittadino di “professare, praticare e diffondere” la propria religione. Senza dimenticare, poi, il caso di Sobia Naveed, che dopo aver deciso di convertirsi al cristianesimo, facendosi battezzare, è stata costretta alla fuga dai vicini di casa e dai suoi stessi genitori, che le hanno intimato di tornare alla religione islamica per evitare “terribili conseguenze”. Più o meno ogni quindici giorni, ha detto Gill al Washington Post, ci sono cristiani che si preparano a lasciare la città. Lo steso cimitero di Gora Qabaristan è stato spesso fatto oggetto di atti di vandalismo alle sue tombe. “La gente butta la spazzatura qui dentro, le croci e le statue sono sovente profanate”, compresa quella della Vergine Maria, fatta a pezzi accanto a un sepolcro d’un uomo morto più di mezzo secolo fa.  Il businessman di Karachi va avanti, nonostante le minacce che l’hanno costretto a cambiare più volte auto nel corso degli ultimi mesi: “Mi affido alla Bibbia, al salmo 91. In quei versi è garantita la protezione a coloro che credono”.

 

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  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.