Il "direttorio" nel linguaggio della democrazia

Massimo Bordin
In politica le parole hanno, se possibile, ancora più importanza. Gli slogan innanzitutto, che non a caso un tempo si definivano anche parole d’ordine, ma anche i termini che definiscono gli aspetti organizzativi non sono neutri e hanno la loro importanza rivelatrice.

In politica le parole hanno, se possibile, ancora più importanza. Gli slogan innanzitutto, che non a caso un tempo si definivano anche parole d’ordine, ma anche i termini che definiscono gli aspetti organizzativi non sono neutri e hanno la loro importanza rivelatrice. Direttorio, ad esempio. Evoca una struttura di transizione, dotata di poteri in qualche modo straordinari e non vincolati al consenso. Nel linguaggio della democrazia ha un significato sgradevole, una accezione negativa. I partiti democratici, e anche quelli che vogliono fingersi tali, si dotano di una direzione, non di un direttorio. Se un gruppo dirigente dovesse mostrarsi incline all’autoritarismo sarà se mai la stampa libera a definirlo spregiativamente con quel termine. Da questo punto di vista autoproclamarsi direttorio è come darsi la proverbiale zappa sui piedi. Oppure, e questo forse è il caso del M5s, affermare la propria diversità. La scelta così avrebbe una logica. I pentastellati sono per la democrazia diretta e la storia ci racconta che quello è un sistema che sfocia proprio in strutture del genere. C’è chi ha scritto, scherzando ma fino a un certo punto, che la democrazia diretta si chiama così perché arriva sempre qualcuno che la dirige. Gli esempi non mancano ma qui sta il problema,perché si fatica a paragonare Di Maio a Barras o Di Battista a Fouché. Il massimo che viene fuori è il pittoresco senatore Giarrusso e il suo elogio della ghigliottina.

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