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la storia

Quel che è rimasto e quel che si è perso della storica vittoria del referendum sulla legge 40

Assuntina Morresi

Ignorando la questione antropologica, la Chiesa si è aggrappata a una morale che l’ha resa sempre meno rilevante nella scena pubblica

L’onda lunga della vittoria dei referendum sulla legge 40 continua nei mesi e negli anni successivi, così come l’opera di alfabetizzazione diffusa di larga parte del laicato cattolico, che consolida il confronto e le affinità con alcuni ambienti del mondo laico: il primo ha come riferimento l’Avvenire di Dino Boffo, insieme ad alcune delle più conosciute sigle associative di area cattolica, quali Scienza & Vita e Forum delle Famiglie, mentre i secondi guardano innanzitutto al Foglio di Giuliano Ferrara. I due giornali continuano ad essere, per diversi anni, la principale, straordinaria opportunità quotidiana di approfondimento, confronto e giudizio su quelli che usualmente vengono chiamati “temi di bioetica” o anche “temi eticamente sensibili”, o, meglio ancora, “valori non negoziabili”: Avvenire e il Foglio sono di fatto gli strumenti con cui la questione antropologica resta stabilmente nella politica italiana, diventando un criterio per valutare l’agibilità dei cattolici all’interno di partiti e schieramenti.              

Scorrendo gli articoli di quegli anni, dopo i referendum sulla legge 40 leggiamo dell’introduzione della pillola abortiva Ru486 e, a seguire, nel 2006, la vicenda di Piergiorgio Welby, mentre nel 2007 troviamo il Family Day, cioè la prima, grande manifestazione laica dei cattolici in occidente. Laica perché a favore del matrimonio civile, quello della Costituzione, che si può sciogliere con il divorzio, e della famiglia intesa come padre e madre (e coerentemente, la manifestazione ha avuto due portavoce laici, Eugenia Roccella e Savino Pezzotta); dei cattolici perché è a trazione cattolica, cioè delle stesse associazioni che si sono battute due anni prima sui referendum sulla legge 40, in sintonia con la Cei. Il laicato cattolico, inteso come arcipelago di associazioni, parrocchie e movimenti, è nella sua piena maturità ed è ormai rodato: l’intera organizzazione, stavolta, è a carico del Forum delle Famiglie, a cui fanno riferimento, trasversalmente rispetto ai partiti di appartenenza, i parlamentari di area. Il 12 maggio 2007 più di un milione di persone manifesta in piazza San Giovanni a Roma, laicamente, in favore della famiglia, con l’obiettivo di dire No ai DICO del secondo governo Prodi, la proposta di legge sui “DIritti e i doveri delle persone stabilmente COnviventi”: una mediazione proposta dai cattolici di sinistra della maggioranza di governo, per regolamentare le convivenze anche omosessuali. Ma una mediazione insoddisfacente, secondo laicato cattolico e Cei, che la ritengono dannosa per la famiglia: secondo questi ultimi, è giusto riconoscere i diritti delle persone che convivono – ad esempio, il diritto all’assistenza al convivente se è malato: sono diritti, però, che in gran parte già sussistono, e comunque si tratta di farli restare nell’ambito di accordi privati, senza distinguere convivenze omosessuali ed eterosessuali, e anzi, auspicabilmente, estendendo a convivenze di supporto reciproco, oltre le coppie, come può avvenire ad esempio fra persone anziane o sole. Un quadro molto diverso da quello prospettato dai DICO, che invece rischia di introdurre nuove forme simil matrimoniali riconosciute pubblicamente.

La posizione della Chiesa, ancora una volta, è condivisa anche da tanto mondo laico, analogamente a quanto successo due anni prima. Il Family day non ha mai attaccato direttamente il governo Prodi, ma è stato comunque uno schiaffone ai cattodem: travolti da piazza San Giovanni, i DICO non furono mai approvati. L’eccezione italiana si consolidava, mostrando anche la ragionevolezza delle posizioni elaborate nel merito, ad esempio, della ricerca scientifica. Basti pensare, una per tutte, alla famosa distinzione fra “clonazione riproduttiva” e “clonazione terapeutica”: chi se la ricorda più?

La sola idea di clonazione è stata spazzata via dal Premio Nobel della medicina del 2012, Shinya Yamanaka, con le sue cellule staminali etiche che risolvevano il problema di distruggere gli embrioni, clonandoli, per necessità di ricerca: nel 2007 Ian Wilmut, il “padre” della pecora Dolly, l’ovino più famoso della storia perché primo mammifero a essere clonato, annunciò di rinunciare alle sue ricerche sulla clonazione perché uno studioso giapponese ne aveva di più promettenti. Si diceva “terapeutica” della clonazione, in teoria, finalizzata alla produzione di embrioni clonati per ricavarne cellule e usarle in laboratorio per produrre terapie, a differenza di quella “riproduttiva”, una procedura identica per far sviluppare l’embrione clonato e far nascere individui in copia. Il mito della clonazione aveva resistito al più grande scandalo della storia della scienza, quello del veterinario coreano Wang Woo Suk che nel 2005 aveva pubblicato su Science la produzione di cellule staminali embrionali umane clonate. La dimostrazione successiva della totale falsità di quei dati e il fatto che nessuno fosse mai riuscito a produrre quel tipo di cellule non erano bastati a ridimensionare le aspettative.

Di tutto questo si scriveva e si discuteva all’epoca, sul Foglio e su Avvenire, con articoli che spiegavano con dovizia di particolari finanche le tecniche utilizzate, e lo stesso accadeva per la diagnosi pre impianto degli embrioni, per la compravendita di ovociti, per la produzione di embrioni misti uomo-animale, per l’eutanasia: la lista è lunghissima, e sorprende a rileggere adesso della ricchezza di quel dibattito a cui i due quotidiani costringevano. 

La Corte costituzionale è intervenuta diverse volte per modificare la legge 40, e due sentenze, in particolare, hanno inciso, eliminando il numero massimo di embrioni da formare e il divieto della fecondazione eterologa: l’impianto, però, nonostante tutto, ancora regge. Una legge basata sull’antropologia naturale, dove è consentito tutto ciò che accade naturalmente: l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita è per una coppia eterosessuale, in età potenzialmente fertile, sposata o convivente, che può concepire in laboratorio se non è riuscita a farlo per le vie naturali. Non è possibile, cioè, utilizzare, come scelta riproduttiva, la fecondazione in vitro. La 40 usa i termini “omologa” ed eterologa” per indicare una fecondazione che avviene in una coppia, con i gameti degli aspiranti genitori, per la prima, o di altri, per la seconda, mentre nelle normative europee si parla di partner donation anziché di omologa e non partner donation anziché di eterologa, in riferimento alla decisione del singolo di essere o meno genitore, e non di una coppia in relazione stabile. Il concetto di diritto individuale al figlio è estraneo all’intero impianto della 40, come ha anche confermato l’ultimo pronunciamento della Consulta, che non ha consentito l’accesso a un genitore solo. E ancora, il divieto della ricerca sugli embrioni continua a valere grazie a una sentenza della Corte europea dei Diritti umani, la Parrillo c. Italia, del 2015, mentre la Costa Pavan del 2012 ha consentito la diagnosi preimpianto.

L’ultima battaglia di quel periodo post referendario fu per Eluana Englaro, che morì nel febbraio 2009 a seguito di una sentenza della Corte costituzionale, ma che nella sostanza fu vinta nell’opinione pubblica da chi invece la voleva salvare, gli stessi a sostegno della legge 40 e del Family Day: è servito montare un altro caso, quello di Fabiano Antoniani, per cambiare le norme sul fine vita, e il padre di Eluana, che aveva condotto in prima persona la battaglia per sospendere i sostegni vitali a sua figlia, non è mai diventato quell’eroe nazionale che alcuni si erano adoperati che diventasse. Ma allora perché quel periodo, così promettente, si è chiuso? Le motivazioni sono tante, a partire dal mutato atteggiamento della Chiesa, intesa come orientamento della Cei e del Papato insieme, che hanno di fatto eliminato dall’agenda l’argomento “questione antropologica” (e sarebbe interessante approfondirne il perché), con tutte le conseguenze del caso, anche politiche.

All’inizio degli anni 2000 in Italia il consenso della Chiesa era importante, per chiunque facesse politica, e la Chiesa – cioè la Cei in sintonia con il Papa – non chiedeva unità rispetto a un partito, ma intorno ai “princìpi etici che per la loro natura e per il loro ruolo di fondamento della vita sociale non sono negoziabili” (Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica, congregazione per la Dottrina della fede, prefetto Joseph card. Ratzinger, 24 novembre 2002). Non si tratta di questioni che hanno a che fare con la “morale cattolica”, come spesso erroneamente si vuole far credere, ma con ambiti – vita, famiglia e libertà di educazione – nei quali si vuole mantenere centrale il riferimento al modello antropologico che si rifà alla cultura greco-giudaico cristiana occidentale, comune a credenti e non. “Questione antropologica”, appunto, e per questo motivo ha potuto coinvolgere tanti ambienti laici, soprattutto quelli più sensibili alle nostre radici culturali, greco-giudaico cristiane. 

I cattolici di sinistra hanno cercato, nel tempo, continuamente mediazioni che consentissero loro, da un lato, di non porsi in contrasto con la Chiesa per non perderne il consenso, e dall’altro di caratterizzarsi comunque nell’appartenenza ad uno schieramento che sempre più ha fatto dei cosiddetti “diritti civili” la colonna portante e chiaramente riconoscibile del proprio progetto politico. Un tentativo sempre naufragato, quello dei “cattolici democratici” perché impossibile di suo: tanto più la sinistra fa coincidere la propria identità con la rivendicazione di quelli che qualcuno ha chiamato “diritti insaziabili” – dal diritto al matrimonio egualitario al diritto al figlio, e al figlio sano; dal diritto a morire al diritto alla scelta del genere di appartenenza – tanto più respinge ipso facto il magistero della Chiesa cattolica, perché con l’affermazione di quei diritti ne nega il fondamento antropologico.

Nel centro destra, al contrario, c’è sempre stato spazio per diversi orientamenti: i diritti civili non sono mai stati un asse programmatico nei partiti di questo schieramento, e a maggior ragione, più di recente, nella prospettiva dei “conservatori”, dove il nome stesso implica l’ottica di conservare storia e tradizioni, per poter andare avanti.

Il solco dei valori non negoziabili si è di fatto sostituito al Muro di Berlino, in quegli anni, definendo il perimetro della destra e della sinistra e dell’agibilità politica dei cattolici: l’area di centrodestra ha dato da allora sempre importanza alla questione antropologica, all’inizio, con Berlusconi, perché era la condizione imprescindibile per avere il consenso della Chiesa, quando per le gerarchie e per il grosso del laicato cattolico erano centrali; più tardi, con la Meloni, in modo naturale, perché l’essere conservatori implica basarsi sul patrimonio delle tradizioni per crescere sulle radici della nostra cultura. 

Volendo ignorare la centralità della questione antropologica la Chiesa ha di fatto indebolito la sua storica capacità di leggere il tempo che attraversa e, per una eterogenesi dei fini, si è aggrappata a una morale che l’ha resa sempre meno rilevante nella scena pubblica, e quindi nella politica. Le diseguaglianze, il lavoro, le guerre, l’ambiente non possono che essere sempre temi centrali, problematiche che però vanno affrontate con la lente dei tempi che si stanno vivendo, pena l’inevitabile adeguarsi, anche lessicale, al mainstream – inclusione, sostenibilità, biodiversità, etc. – e diventare di fatto indistinguibili da altri soggetti: in questo modo, essere cattolici non ha peso, e non può portare consenso politico.

A distanza di vent’anni l’espressione “valori non negoziabili” è scomparsa dal dibattito pubblico e il laicato cattolico ha perso centralità. Dopo la parentesi del Covid e dei suoi dilemmi, il dibattito etico ora è incentrato sulle conseguenze del digitale e sull’irrompere dell’intelligenza artificiale, che investe l’umano e interroga tutti e a tutti i livelli, trasversalmente, senza però produrre le divisioni e le battaglie di un tempo.  

Resta centrale il portato, enorme, della questione antropologica che, dopo aver investito inizio e fine vita, mutandone percezione e comportamenti e producendo nuove leggi, ha coinvolto l’identità sessuata, mettendo in discussione il maschile e il femminile come fondanti della specie umana: venti anni fa non avremmo mai pensato che potesse diventare divisivo, nel dibattito pubblico, il significato della parola “donna”. La rivoluzione antropologica continua quindi il suo percorso, inglobando il digitale in tutti i suoi aspetti, ed è intrecciata e connessa – molto più di quanto appare – con un’altra, grande trasformazione planetaria: il calo delle nascite, con il conseguente, profondo mutamento nella struttura della rete parentale e quindi della popolazione.

Sono temi che continuano a fare la differenza, per il semplice fatto che restano centrali e determinanti, proprio perché se nuove modalità di venire al mondo, di metter su famiglia e di morire, entrano nella vita quotidiana, anche quando sembrano coinvolgere solo minoranze numeriche, trasformano radicalmente quella di tutti noi.
 

La precedente puntata è stata pubblicata il 19 giugno