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l'opinione

L'ipocrisia di chiamare “legge di fraternità” l'aiuto attivo a morire

Ferdinando Cancelli

Un gioco di parole barbarico sul fine vita. La vera “fraternità” sarebbe aiutare i malati a vivere meglio e a comprendere fino in fondo ciò che attraversano

Mentre il presidente francese Emmanuel Macron in un’intervista alla Croix dell’11 marzo definisce la legge sul fine vita una “legge di fraternità” proprio per il fatto che permetterà quell’“aiuto attivo a morire” che finora mancava nel paese transalpino, nell’esercizio quotidiano della professione medica assistiamo a una serie di fatti sconcertanti che aiutano a comprendere ciò di cui ci sarebbe davvero bisogno.

Una vera “fraternità” sarebbe infatti quella di aiutare i malati a vivere meglio e a comprendere fino in fondo, senza ipocrite forzature, ciò che sta loro capitando. Abbiamo sentito di persone dipendenti da mezzi di sostegno vitale come la ventilazione assistita “invitate” da équipe di cure palliative a stendere le direttive anticipate non perché lo avessero chiesto ma perché “si deve fare così”. Un’infermiera mi raccontava a questo proposito di aver seguito per mesi un paziente affetto da sclerosi laterale amiotrofica e di aver notato che, nonostante la sua condizione di dipendenza, costui fosse assolutamente sereno, circondato dai familiari e lontano dall’idea di chiedere di essere “staccato dalle macchine”. Cambia però l’équipe curante ed ecco che i nuovi venuti, in nome di una prassi che tutto sacrifica ai moderni dettami di una “coscienza libera”, iniziano a dirgli che lui deve compilare le direttive anticipate, costringendolo a esprimersi su un argomento delicatissimo e per lui fino a quel momento assolutamente lontano.

È giusto fare così? Non si pensa che questo possa turbare un fragile equilibrio trovato dopo mesi o anni di malattia? E questo “spingere” siamo sicuri che lasci davvero libero il paziente di andare in ogni “direzione morale” oppure piuttosto non lo costringa a sviluppare l’idea che sia meglio farsi da parte? Un altro caso osservato sul campo è quello di Dario, chiamiamolo così, un altro paziente neurologico dimesso da un grande ospedale, anche in questo caso con una ventilazione meccanica per una malattia degenerativa a esito infausto. “I suoi colleghi mi hanno fatto fare il testamento biologico” – mi dice già alla prima visita a domicilio. “E lei che cosa ha scritto? Possiamo vederlo insieme? – rispondo. “Vede, ho scritto che se le cose dovessero peggiorare io non voglio più la tracheostomia”. Con calma cerco di capire se ha capito: togliere la tracheostomia vuol dire nel suo caso morire. “Ma questo non mi era stato detto! – risponde spaventato – “Se è così non voglio!”. Il tempo tra paziente e medico è sempre un “tempo di cura” come dice la legge 219 del 2017, ma in questo caso come è stato utilizzato? Siamo certi che l’intento di chi gli ha fatto compilare le Dat fosse scevro da ogni tendenza ideologica e cercasse davvero il bene del paziente?

Dario è ancora vivo, ogni tanto passo a trovarlo anche se non lo assisto più direttamente. Non chiede, come moltissimi altri nelle sue condizioni, un’ipocrita “legge di fraternità” che nasconde sotto l’apparentemente innocua dizione di “aiuto a morire” ciò che dovrebbe chiamarsi “eutanasia” o “suicidio assistito”. E soprattutto è stanco di sentire parole come “aiuto” o “assistenza” usate per giustificare la sua rapida uscita di scena in nome di una barbarie mascherata da progresso.

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