Hunter Schafer è Jules in "Euphoria" 

Prima puntata

Transgender in viaggio. Indagine su una realtà (non più) sommersa

Storie, testimonianze, norme, reazioni familiari e sociali, nuove adolescenze, medici, scuole, Rete, specchio e palcoscenico

Marianna Rizzini

Che cosa è cambiato, dove, perché? Figli, genitori, teen-ager davanti a se stessi e davanti a un telefono, documenti e percorsi medici. "Dead name. Basta, si spera nessuno lo usi più", dice Michelle, che a 12 anni non sapeva come fare coming-out con sua madre e allora le ha scritto su Whatsapp. I farmaci bloccanti, la pubertà “congelata”, la cura con gli ormoni. Parlano i medici del team di Careggi

 

Cos’è, cos’è / questa sensazione?/ E’ come un treno che mi passa dentro / senza stazione / dov’è, dov’è / il capostazione?/ sto viaggiando senza biglietto / e non ho direzione / è il mio corpo che cambia / nella forma e nel colore / è in trasformazione / è una strana sensazione…”

(Litfiba, “Il mio corpo che cambia”, 1999)

  
Dead name. Il nome morto. Il nome che si spera nessuno continui a usare per chiamarti o per  interrogarti a scuola, perché non corrisponde più a un corpo e a una identità e perché adesso c’è l’altro nome, con il suo pronome conforme, quello scelto dopo il coming out, quando si dice al mondo e ai propri genitori che il sesso assegnato alla nascita non è quello che ci si sente. “Il vecchio nome non è il mio, capito, basta”. Michelle ha quattordici anni e si presenta forte del nome vivo, quello scelto dopo aver parlato con l’amica più grande con cui si confidava quando di anni ne aveva dodici ed era nel pieno della “crisi e della presa di coscienza”, dice, e dopo aver ascoltato una canzone di Sir Clhoe che faceva “Michelle / Michelle / you are a monster from hell”, sei un mostro dell’inferno – solo che in quella canzone non c’era un mostro vero ma una ragazza bellissima che faceva paura a tutti per quanto era bella, e invece per Michelle i mostri sono un ricordo d’infanzia, amaro e dolce al tempo stesso. Funzionava così: Michelle – che è nata maschio ma si è sempre sentita femmina, e giocava con giochi da femmina e una volta ha chiesto a Babbo Natale la stessa bambola che voleva sua sorella gemella Paola, solo che poi la bambola è arrivata solo a Paola perché in famiglia compravano per lei giochi da maschio – a forza di sentire le prese in giro e le minacce di compagni e conoscenti nel piccolo paese del leccese dove tuttora abita (“femminuccia”, “frocetto”, e dalle medie in poi anche “se vai ancora in giro così ti diamo fuoco”), si era inventata con se stessa il gioco “Monster hide”. Faceva cioè finta di essere uno dei protagonisti di “Monster hide”, il cartone animato dove i mostri giocano, combattono in prima linea e vincono.

  
Rosaria Riccardo, la mamma di Michelle, nei giorni di “Monster hide” ancora non sapeva nulla: “O non mi rendevo conto, non so”, dice: “Sapevo di aver un figlio diverso, sensibile, vedevo che a mio figlio piaceva giocare con i giochi della sorella gemella, ma né io né il mio ex marito abbiamo mai detto ‘fai così, fai cosà’. Un giorno ho anche chiesto consiglio alla pediatra, quando Michelle, a quattro o cinque anni, voleva lo zaino delle Winx e i gadget delle principesse. E la pediatra mi ha detto: ‘Se tua figlia Paola ti chiedesse un pallone, verresti a chiedermi consiglio?’. Mi pareva di essermi risposta da sola. Ma poi, anni dopo, è arrivata la bomba”.

 

La bomba, nelle parole di Rosaria, è una cosa che all’inizio le pareva “campata per aria”, ma con cui ha dovuto presto fare i conti: “Un figlio è un figlio a prescindere”. La bomba, nelle parole di Michelle, è un’estate di sofferenza: “Dodici anni, mi guardavo allo specchio e piangevo. Avevo cominciato a truccarmi di nascosto con i trucchi di mia sorella; anzi al nostro compleanno abbiamo fatto finta di chiederli per lei e invece li usavo io. Volevo dire qualcosa a mia madre, ma non riuscivo”. “Mamma, ti devo parlare”: Rosaria ha sentito questa frase tante volte, ma quando chiedeva a Michelle che cosa dovesse dirle, Michelle rispondeva: “No, non ce la faccio”. Aveva preparato una lettera, sotto forma di lungo messaggio sul cellulare, salvato per il momento giusto – che però non arrivava mai. “Intanto una sera ho parlato con Paola, ma non a voce”, dice Michelle. “Ero di fronte a lei nella stanza ma le ho scritto un messaggio: sono trans e tu hai una sorella, non un fratello. E lei mi ha risposto: ‘Ma io lo sapevo, sei il mio sangue’. Con mamma invece rimandavo, fino a che una sera lei ha inchiodato con la macchina accanto a un muro, in modo che il mio sportello non si aprisse: se non mi dici che cosa c’è non scendi, mi ha detto. Ma io non ce la facevo, non volevo vedere la sua faccia. Le ho mandato la lettera da casa, da un’altra stanza. L’ho trovata più tardi che piangeva. Diceva che pensava io fossi gay, ok, ma così non riusciva a crederci”.

 

“Mi è caduto il mondo addosso”, dice Rosaria: “Nessun genitore si aspetta una cosa del genere. Quando vedi un figlio crescere ti fai dei film mentali, pensi sarà questo, farà quello. Poi ti trovi davanti a qualcosa di più grande di te e che non sai gestire. Michelle all’inizio non voleva neanche che parlassi con suo padre. Piangevo e mi piangevo addosso, poi sono arrivate le crisi di disforia di Michelle, e mi sono detta: Rosaria basta, smettila, devi aiutarla”. Crisi disforica, dice Michelle, “è quando, anche oggi che sono stata presa in carico all’ospedale Careggi di Firenze per il percorso di transizione di genere, lo specchio non lo sopporto. Di chi è quel corpo? Non è mio, penso, e mi lavo al buio, per non vedere”. Lo specchio nemico, dice Rosaria, che come immagine del tempo successivo al coming out ha stampata in mente “quella di me e Michelle che di sera piangiamo insieme abbracciate, vicino alla vasca da bagno, perché lei è cresciuta in fretta e a 15 anni sembra una ventenne, ma con quel corpo sta male. E prima io le dicevo ‘aspetta, magari è una fase’, e lei mi rispondeva ‘mamma scordatelo’, ma ora dico: ‘Abbiamo aspettato troppo’, e meno male che Michelle sta per iniziare il percorso”. 

   
Il percorso per adolescenti, spiegano a Careggi le dottoresse del team che si occupa di affermazione di genere, l’endocrinologa Alessandra Fisher e la psicologa e psicoterapeuta Jiska Ristori, inizia con una presa in carico della persona e della sua famiglia. Prima di tutto dal punto di vista psicologico. Dal 2019 l’Oms non considera più la condizione transgender come disturbo mentale e include la classificazione dell’incongruenza di genere in una sezione chiamata “condizioni relative alla salute sessuale”. La definizione di “incongruenza di genere”, dice Ristori, “rappresenta un passo avanti nel percorso della depatologizzazione e sembra essere un termine più rappresentativo dei diversi modi in cui l’identità di genere può presentarsi fin da una giovane età.

 

L’inserimento nel contesto sociale e l’inclusività dello stesso sono fattori importanti che possono compromettere il funzionamento psicologico di una persona transgender che soprattutto in adolescenza tende a essere descritta come più vulnerabile e in alcuni casi il malessere è così forte che si può arrivare al rischio suicidario. Inoltre, in alcuni casi, in pubertà può manifestarsi disagio nei confronti di un corpo che non si sta sviluppando nella direzione desiderata e non riflette l’immagine di sé”.  Al Careggi, spiegano Fisher e Ristori, “accogliamo persone non binarie, persone cioè che non si identificano esclusivamente come uomo o come donna, e persone trans, che non si riconoscono nel genere assegnato alla nascita, e le accogliamo secondo la definizione che danno le persone di sé, per poi concordare con le famiglie gli obiettivi, lungo un percorso individualizzato di affermazione di genere che porti il paziente a vivere la propria condizione con il maggior grado possibile di benessere”. Dopo la definizione dell’obiettivo può iniziare un trattamento con i farmaci bloccanti (triptorelina), spiega la dottoressa Fisher, farmaci cioè che sospendono lo sviluppo puberale inibendo la produzione di testosterone nei testicoli e di estrogeni nelle ovaie, “per accompagnare le persone e guadagnare il tempo necessario a una riflessione serena, con aspettative realistiche, in modo che l’adolescente possa poi prendere una decisione consapevole”, dice Ristori. I bloccanti, spiega Fisher, sono sempre reversibili, e vengono somministrati secondo le raccomandazioni della Wpath, l’Associazione mondiale per la salute delle persone transgender, con il consenso informato delle famiglie: “Il corpo non viene modificato, ma sospeso in una dimensione pre-puberale”. Non vuol dire restare in un eterno indefinito, in un limbo da Isola-che-non-c’è di Peter Pan. Significa, per i ragazzi trans, non avere più le mestruazioni, non veder crescere oltre il seno. Per le ragazze trans, significa fermarsi lungo il confine che porta un pre-adolescente a diventare un uomo, quando già la voce si è fatta più profonda e la peluria della barba è comparsa. “La pubertà però deve essere iniziata”, dicono le dottoresse: “Qui non si trattano casi di bambini”. “Oltre i quattro anni di trattamento non si va, con i bloccanti”, dice Fisher, “l’adolescente deve confrontarsi fisicamente e psichicamente con i coetanei e si presuppone che raggiunga a un certo punto la consapevolezza necessaria a decidere se procedere oltre o no”.

 

Se si procede si arriva al secondo step, spiega Fisher, e cioè alla possibilità di un trattamento di affermazione di genere ormonale, sotto consenso parentale per i minorenni: “Con la terapia ormonale si mima, attraverso la somministrazione di estrogeni e progesterone o testosterone, la pubertà femminile o maschile vera e propria”. La terapia è in parte irreversibile: “Se si volesse tornare indietro da una cura con estrogeni dopo lo sviluppo del seno, per esempio”, dice Fisher, “si potrebbe agire solo chirurgicamente, cioè con la mastectomia”. Il raggiungimento della maggiore età è necessario solo per alcuni interventi chirurgici di affermazione di genere quali la falloplastica. Operazione non più necessaria per il cambio di nome sui documenti, spiega l’avvocato Gianluca Piemonte, il cui studio è specializzato in pratiche di questo tipo.

   
Non era così fino a poco tempo fa: per la legge 164 del 1982, la prima in Italia a introdurre la possibilità di cambiare sesso, per mutare il nome sui documenti serviva l’operazione, ma la Corte costituzionale, con la sentenza 221/2015, non ha ritenuto più indispensabile l’intervento chirurgico ai fini della rettificazione anagrafica del sesso, affidando al magistrato la valutazione finale e mettendo l’accento sul diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, diritto fondamentale della persona garantito dall’articolo 2 della Costituzione. Con la sentenza 180 del 2017, invece, la Corte ha chiarito che, sebbene non sia necessario sottoporsi ad alcun intervento di “normoconformazione”, “demolitorio” o “ricostruttivo”, resta fondamentale “un accertamento rigoroso non solo della serietà e univocità dell’intento, ma anche dell’intervenuta oggettiva transizione dell’identità di genere, emersa nel percorso seguito dalla persona interessata”.

   
“Il cellulare e i social mi hanno salvato la vita”, dice Michelle, parlando dei mesi precedenti alla presa in carico medica: “A scuola mi bullizzavano, anche se ancora non uscivo truccata perché i miei non volevano, e anche se io già mi truccavo di nascosto nella casa al mare – senza andarci, al mare, per avere il tempo di prepararmi bene per poi postare le foto su Instagram”. Era l’estate dello scontento precedente al coming out. “Non darti in pasto”, diceva il padre di Michelle, cercando di proteggerla, alludendo ai gruppi di adolescenti che, nel percorso in bus dal paese natìo a un altro paese in provincia di Lecce dove Michelle andava alle medie, vedendo le sue foto su Instagram, andavano avanti per tutto il tragitto con la cantilena “ricchione, devi morire”, e le frasi potevano piovere sulla sua testa anche quando Michelle, di pomeriggio, era in macchina con la madre. “Non avevano pietà neanche di lei”, dice. Ma il peggio era il resto: “Mi vedevano solo come quello, il trans. Magari io li facevo arrabbiare per altro: per un difetto di carattere, per una normale lite tra ragazze, perché non leggevo a qualcuno i tarocchi che so leggere, ma loro sempre così: il trans, il trans”. Anche per questo sua madre Rosaria un giorno “si è svegliata”, dice: “Siamo andati all’Agedo, l’associazione di genitori e amici di persone gay e transgender (di cui ora Rosaria è presidente a Lecce, ndr). Ho smesso di lamentarmi. Non sono l’unica, non sono sola”.

 

Un giorno, racconta Michelle, anche suo cugino, per molti mesi il suo unico amico, è stato messo sotto tiro dai coetanei, come se l’essere trans di Michelle fosse trasferibile per osmosi a chiunque la frequentasse. E’ allora che interviene il cellulare: “Senza sarei morta. E’ lì che ho visto per la prima volta che era possibile la vita come la volevo io”, dice Michelle, alludendo all’influencer Nikita Dragun – che ha raccontato online il suo percorso di transizione – e ai molti tiktoker americani che parlavano apertamente dell’essere trans. “Ma è la serie tv ‘Euphoria’ che mi ha fatto sentire capita”, dice Michelle: “Volevo essere come Jules”.

 

“Euphoria” è la serie Hbo su un gruppo di adolescenti alle prese, a scuola, con drammi, passioni (fluide e non), dipendenze e resurrezioni, andata in onda a partire dal 2019. In “Euphoria” l’attrice poco più che ventenne Hunter Schafer interpreta Jules Vaughn, una diciassettenne dall’aria delicata, con i capelli lunghi e i vestiti alla moda, transgender come l’attrice che la interpreta, “It girl” che da ragazzina si è battuta contro l’imposizione dell’uso dei bagni pubblici a seconda del sesso di nascita nella sua città d’origine, in North Carolina, nell’America dove oggi democratici e repubblicani impostano campagne sul tema del gender, e dove David Gianforte, figlio non-binario del governatore del Montana, un ragazzo che usa per se stesso sia il pronome “lui” sia il pronome “loro”, ha scritto una lettera al padre Greg per chiedergli di fermare la legge che limita l’accesso agli interventi medici per la transizione e vieta agli adolescenti di cambiare i pronomi senza consenso dei genitori. L’attrice Hunter Schafer, invece, intervistata a suo tempo dal Nyt, ha detto che non sa se definirsi un’attivista “solo perché parlo del mio essere trans. Anche se questo a volte può essere visto come attivismo, perché anche solo esistere come trans è abbastanza duro”.

 

“Stavo male perché ero conosciuta solo per quello, l’essere trans”, dice Michelle, che capisce sua madre Rosaria, passata dallo smarrimento all’uso naturale del pronome giusto, anche se Rosaria racconta che all’inizio le riusciva difficile rivolgersi a Michelle al femminile. A scuola il nome morto Michelle non lo voleva, come non l’ha voluto il ragazzo trans del liceo Cavour di Roma dove, nonostante l’attivazione della cosiddetta “carriera alias”, accordo informale genitori-scuola che permette di non essere chiamati e interrogati con il dead name negli istituti che abbiano previsto nel proprio regolamento questa possibilità, un professore si è rifiutato di correggere un compito con un nome da uomo quando sul registro aveva sempre visto un nome da donna (è seguita protesta degli studenti e interessamento delle associazioni per la difesa dei diritti Lgbt+, fino a risoluzione del caso). 

  
Per Michelle la carriera alias è arrivata a Lecce, al liceo artistico, dopo un cambio di scuola dovuto alla situazione insostenibile: prima infatti frequentava un istituto professionale dove la classe di studi di moda da lei seguiti doveva essere a un certo punto unita a quella di studi per meccanici, ma c’era chi, tra gli apprendisti meccanici, alla notizia dell’accorpamento, se n’era uscito con la frase “ah che bello, così possiamo sfottere Michelle”. Ed è stata la goccia. 
“Da dove viene questa cosa? C’è stata qualche mia mancanza?”. Questo si è chiesta Rosaria quando ha ricevuto il messaggio con cui Michelle le ha confidato di non sentirsi del “genere assegnato alla nascita”. Ma quando Michelle le ha chiesto “mi vuoi ancora bene?”, Rosaria ha capito che non era più quello il punto. Michelle aveva bisogno di lei. Questo ripete a tutti Rosaria, e questo ha detto anche all’ex parlamentare e attivista per i diritti Lgbt+ Vladimir Luxuria quando è capitata nella sua zona, un anno fa. Rosaria l’ha voluta incontrare con Michelle, racconta, “perché dopo la bocciatura del ddl Zan sull’omo-transfobia ho avuto paura che mia figlia, già bullizzata, non fosse al sicuro”. “Non si può più negare quello che è già realtà”, dice Luxuria dal Lovers Film festival di Torino, da lei diretto. Per l’Oms la realtà sta nei numeri: nel 2019, secondo uno studio dell’organizzazione, c’erano nel mondo circa 25 milioni di persone transessuali (0,3/0,5 per cento della popolazione mondiale), in Italia circa 400 mila. Sono passati quattro anni, in mezzo c’è stata la pandemia. In carico a Careggi, oggi, ci sono circa 450 adulti e 150 adolescenti in transizione.

   
(fine prima puntata) 

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.