La marcia della carriera alias per consentire una perfetta autodeterminazione di genere

Marina Terragni

Il movimento giovanile che dilaga in occidente ha realizzato la profezia di Ivan Illich: la possibilità di decidere se sei maschio, femmina o nessuno dei due. È molto di più di una stupidaggine modaiola

Quello della carriera alias nelle scuole non è affatto una stupidaggine modaiola. Si tratta di un vero e proprio movimento politico giovanile, come la Pantera e altre ondate studentesche. Anzi: molto di più.

     
Si chiama transizione “sociale”: decidere liberamente se sei maschio, femmina o nessuno dei due – non binary –, se sei he, she o them. Essere riconosciute-i con nome e pronome di elezione in base all’identità di genere, l’animula che più ti corrisponde, anche se non hai intrapreso nessun percorso di transizione come regolato in Italia dalla legge 164/82 (perizie, “terapie” farmacologiche e chirurgiche, fino alla sentenza definitiva di cambio di sesso). 

   
Partito dalle università anglosassoni, il Movimento Alias è dilagato a macchia d’olio nelle scuole di tutto l’occidente che si dotano di regolamenti per consentire una perfetta autodeterminazione di genere (contestatissima architrave del ddl Zan): piaccia o non piaccia – e a tanti non piace – questo movimento sta dicendo qualcosa di sostanziale.  
Ogni tanto qualche prof. si mette di traverso, è successo anche qualche giorno fa a Roma e a Cagliari (“Tu sei una femmina, non un maschio”) e scoppia l’inferno, proteste, occupazioni e titoli di giornali. 

  
Rigor legis i prof. refrattari avrebbero ragione: la norma in vigore non prevede autoidentificazione (self-id) e transizione sociale, né un cambio all’anagrafe che non sia stato sancito da una sentenza. 

    
In Spagna la cosiddetta Ley Trans promossa dalla maggioranza di governo Psoe-Podemos e vivacemente contrastata dal femminismo unito nel cartello Contraborrado consentirà un pieno self-id. Vai all’anagrafe e chiedi liberamente il cambio, a partire dai 12 anni. E se i genitori non vogliono hai diritto a un tutore legale. In Scozia la premier Nicola Sturgeon sta lavorando a un super self-id che prevede addirittura la cancellazione dell’atto di nascita e il diritto all’oblio riguardo al sesso biologico (anche lì il femminismo è sulle barricate).

    
Da noi niente del genere. Al momento, la legge dice altro. Ai sensi della norma in vigore le carriere alias nelle scuole potrebbero essere stoppate in qualunque momento. Ma sarebbe un argine fragile perché il Movimento Alias è tutto politico e sembra realizzare quello che quarant’anni fa il filosofo Ivan Illich, padre dell’ecologismo contemporaneo, nel suo Gender profetizzò come “un cambiamento della condizione umana che non ha precedenti”. 

     
Illich parla del “sogno futurista di una società moderna in cui le persone sono plastiche, e le loro scelte di diventare dentisti, maschi, protestanti o manipolatori di geni meritano tutte il medesimo rispetto”. Lo chiama “imbroglio unisex”, necessario perché la differenza sessuale è ritenuta un ostacolo allo sviluppo in quanto segno caratteristico della civiltà tribale e contadina. “La scomparsa del genere (…) è la condizione decisiva dell’ascesa del capitalismo e di un modo di vivere che dipende da merci prodotte industrialmente”. 

    
Se all’economia di sussistenza corrispondono differenza sessuale e relazioni, il mercato in perpetua espansione chiede l’individuo neutro e libero da ogni legame di dipendenza.

 

Infatti è proprio “la scomparsa del genere a creare il soggetto dell’economia formale”. Illich gli dà il nome di neutrum oeconomicum, soggetto di “bisogni neutri di una clientela neutra con merci neutre prodotte in un mondo neutro”. Fluido, flessibile, fungibile, sciolto dai legami, individuo radicale, precario assoluto, affrancato dai ruoli e perfino dal proprio corpo, titolare di diritti basati desideri e su bisogni che devono essere creati ex novo prima ancora che soddisfatti. 

  
Illich precisa anche che “la scomparsa del genere degrada le donne più ancora degli uomini” perché “il linguaggio comune dell’epoca industriale è contemporaneamente neutro e sessista”: non per caso il femminismo si sta mobilitando contro il neutrum.  

  
Il vero atto di nascita del neutrum oeconomicum – rinominato come queer – è Gender Trouble di Judith Butler (1990), saggio fantasmagorico tra i più diffusi e compulsati nel West, dove la performatività di genere si afferma in via definitiva. Anche alcuni tra i suoi detrattori, com’è il caso del filosofo francese Jean-François Braunstein, riconoscono Butler come una tra i pensatori più influenti degli ultimi decenni. 

 
Sulla sua theory si è costruito grande parte del mondo in cui stiamo vivendo. Sulla sua rivoluzione, come spesso capita alle rivoluzioni, si è edificato un imponente sistema fino a “un cambiamento radicale” dice Braunstein “della definizione di quello che è l’uomo”. 

 
Il passo decisivo di Butler, costruzionista radicale, è stato estendere anche al sesso lo statuto di costrutto culturale, normativo e oppressivo che il femminismo attribuiva ai ruoli di genere per arrivare fino alla messa in questione della materialità dei corpi. 

 
Se quello che sta capitando è di questa portata si pensa davvero di cavarsela ai sensi del comma X della legge Y? Le donne hanno molto lottato contro gli stereotipi di genere imposti dal patriarcato: libera significazione della differenza sessuale, l’ha chiamata il pensiero della differenza. Lui a combattere nel mondo, guerriero e breadwinner, lei angelo del focolare: all’osso si trattava di questo. A un certo punto il focolare ha incendiato la casa. Per una donna la questione era potere affermare la libertà di studiare e lavorare, essere madre o non esserlo, dire, fare, comportarsi secondo la propria vocazione e il proprio desiderio. Per alcuni maschi pionieri che da questa lotta hanno tratto vantaggio, è stato potersi sottrarre all’obbligo di esercizio del dominio. 

 
A quanto pare, la massa degli uomini refrattari è in crescita costante. “In tutti i continenti”, osserva lo storico Ivan Jablonka, “un numero crescente di giovani si dicono ‘non binari’, gender fluid o neutri, indipendentemente da loro orientamento sessuale. Queste nuove identità (…) esprimono una diffidenza verso il patriarcato”. 

 
Che un giovane uomo lotti contro gli stereotipi di genere fino a non volersi più nominare uomo – o eventualmente a nominarsi donna – può dunque essere visto come un contributo performativo-politico alla lotta antipatriarcale.

  
Negli anni Settanta, ben prima dell’avvento della fluidity, anche la femminista Carla Lonzi aveva prestato attenzione alla resistenza dei giovani maschi a identificarsi con i modelli correnti di virilità: “Nell’angoscia dell’inserimento sociale il giovane nasconde un conflitto col modello patriarcale”. 

 
Anche per le ragazze si tratta di resistenza anti patriarcale, ma la cosa si declina diversamente: l’obiettivo è sfuggire al destino di oppressione come “da una casa in fiamme”. Più che diventare uomini, non essere donne. 

 
Le boomer e dintorni hanno cercato di scampare la miseria femminile perseguendo parità e androginizzazione simbolica; le anoressiche hanno lavorato direttamente sul corpo, disincarnandolo e de-maternizzandolo; le ragazze che oggi si dicono uomini portano ad apparente perfezione questo lavorio sul corpo, eventualmente ricorrendo – molto più dei coetanei maschi – alle nuove tecniche ormonali e chirurgiche: la carne femminile-materna come campo di battaglia. Un marasma tutto politico/biopolitico a cui il mercato ha saputo rispondere per primo o di cui, come sostiene Illich, ha inteso creare le condizioni. 

 
Il queer è diventato un comunissimo prodotto, dagli smalti per uomo alla top surgery, in vendita sugli scaffali del mercato neoliberista fino a consolidarsi come mainstream.

    
La più grande esperta di gender industry è la giornalista investigativa americana Jennifer Bilek secondo la quale “una delle tattiche più brillanti per lo smantellamento del dimorfismo sessuale umano a vantaggio del profitto del complesso tecno-medico (Tmc) è stata unire la propria agenda di promozione della dissociazione del corpo al movimento progressista dei diritti umani per le persone lgb”. 

  
Bilek ricostruisce per esempio la vicenda degli investimenti colossali di Jon Stryker – erede della Stryker Corporation, multinazionale medica da 14,7 miliardi di dollari – per abolire il divieto statale che in Arkansas e in altri 17 stati americani proibisce la sperimentazione farmacologica e chirurgica sul sesso dei bambini. L’industria sanitaria globale è un business da 10 trilioni di dollari, spiega, e per crescere all’interno di un’economia capitalista deve creare nuovi mercati. Le identità mediche basate sul sesso alimentano questa industria. Per questo non si parla più di “transessualità” ma di “transgender”, rebranding che consente di allargare il mercato per fornire “una cura perfetta per una popolazione di adolescenti ansiosi e demotivati”. 

 
Bilek racconta che mediante la Fondazione Arcus, la più grande ong lgbt del mondo, Stryker ha finanziato con mezzo miliardo di dollari la campagna globale a sostegno dell’identità di genere, “campagna che ha invaso i massmedia mainstream, la comunità degli psicologi, le nostre istituzioni educative, sportive, religiose e mediche, così come le organizzazioni per i diritti umani”. 

  
Si può pensare di liberarsi dalle costrizioni patriarcali e dai ruoli di genere andando a comprare questa libertà al mercato?  
Per dirlo con le parole della poeta afroamericana Audre Lorde “si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”? 

 
Qualcosa non è andato come si era immaginato. La libera significazione di sé oltre le norme imposte, nata dal desiderio femminile vivo, si è cristallizzata in tassonomia e in merce da scaffale, producendo nuovi stereotipi al posto di quelli obsoleti. Il lavoro da fare, allora, è strappare questa libertà al mercato – e al significante fallico che lo governa – rompendo la forma-prodotto che ha assunto perché possa tornare disponibile per tutte e tutti, come si direbbe di un bene comune che non può essere venduto né comprato. Bene comune che è la possibilità di una buona vita in relazione con gli altri, e di quel poco di libertà e di giustizia per tutte e tutti. Provare a liberare il desiderio dal business e dalla sua propaganda martellante, soprattutto per le giovani generazioni a cui fuori dal mercato non sono offerti spazi di vita. 

 
Il Movimento Alias, insomma, è politico e chiede urgenti risposte politiche. Il lavoro da fare è riprendere e condurre fino in fondo la “vecchia” lotta delle donne contro gli stereotipi di genere – nessuno si illuda di poterli restaurare – ma anche sgombrare il campo dall’illusione che il sesso possa essere cambiato, e che sia necessario cambiarlo per potere essere libere-i, che esista un individuo sciolto da ogni relazione e che possa tutto. 

 
Lo dice con molta chiarezza J. K. Rowling, da tempo incoronata regina delle Terf, le cosiddette femministe trans-escludenti: “Vestiti come vuoi. Fatti chiamare come vuoi. Vai a letto con qualunque adulto consenziente desideri. Vivi la tua vita al meglio, in pace e sicurezza”: ma questo non fa di te una donna se sei nato uomo, e viceversa. 

 
Nemmeno gli ormoni, la chirurgia, i bloccanti della pubertà e tutto il resto del biobusiness possono farti diventare una donna se sei un uomo, o un uomo sei donna. Ma puoi essere gratis, questo sì, una donna o un uomo come ti piace esserlo. Puoi significarti liberamente e in relazione, senza dover chiedere il permesso. “Quella roba ti fa venire il cancro” dice Fraser, quattordicenne fluido, alla sua amica del cuore Caitlin tentata dagli ormoni: nella miniserie We Are Who We Are il regista Luca Guadagnino – in questi giorni di nuovo al cinema con il suo Bones and All – racconta con sensibilità e precisione la faccenda della fluidity nei giovanissimi. 
Alla fine poi Fraser e Caitlin scoprono di amarsi. Tipo un ragazzo e una ragazza qualunque, semplicemente liberi.

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