(foto Ansa)

Bentistà

Rete senza demagogia

Marco Bentivogli

Gli eccessi pubblici da evitare sulla rete unica e la via europea per l’efficienza. Perché neutrale non significa statale

I due cda di Tim e di Cdp hanno posto le basi per la costruzione di un percorso che potrebbe culminare con una rete aggregata in alta capacità, diffusa in tutto il paese, in tempi accelerati rispetto ai piani esistenti. Si tratta di una strategia complessa, non priva di rischi, che tenta tuttavia di soddisfare cinque diverse esigenze: (i) uscire da un contesto asfittico inefficiente in cui Tim e Open Fiber (OF) s’inseguono reciprocamente, ma con molti ritardi in varie aree del paese; (ii) dispiegare il massimo di risorse pubbliche e private per accelerare nuovi investimenti per famiglie e imprese; (iii) valorizzare il ruolo pubblico di mission per un nuovo servizio universale della cittadinanza digitale, senza per questo “ri-pubblicizzare” il debito privato di Tim; (iv) mantenere, con una governance indipendente, i requisiti minimi per il mantenimento di una piena concorrenza a valle, con parità di accesso e non discriminazione; (v) valorizzare il capitale umano di Tim, OF e degli altri operatori in un progetto di ammodernamento del paese. La rete unica deve essere assolutamente indipendente, o per meglio dire neutrale, dagli operatori (i gestori telefonici retail). Come Terna lo è con i gestori di energia, Rfi con Italo e Trenitalia. E così via.

   

Ciò che occorre però monitorare con attenzione è se qualcuno ha invece in mente di fare altro. Magari statalizzare i gestori, il 5G e poi distruggere il settore. Quella della rete unica, è una scommessa di straordinaria importanza e saranno i dettagli del progetto a dover garantire un percorso equilibrato tra queste diverse esigenze.

    

Se, infatti, le dinamiche di mercato osservate negli ultimi anni, soprattutto grazie alla pressione concorrenziale di un nuovo operatore come Open Fiber, attivo solo a livello wholesale (all’ingrosso), hanno migliorato significativamente il quadro nazionale dell’infrastrutturazione a banda ultra larga nel confronto europeo, esse non hanno risolto tutti i problemi, a partire da quello della copertura delle aree bianche. Open Fiber si è di fatto troppo concentrata sulle stesse aree dove già erano presenti i privati, trascurando la mission relativa proprio alla copertura di queste aree a fallimento di mercato. Di per sé non è la rete unica e neppure la proprietà pubblica (in altri paesi le reti sono duplicate e la governance pubblica è sempre minoritaria) il vero termometro per misurare il successo di questo progetto ma è la capacità di individuare meccanismi per affermare una forte discontinuità nella tempistica e nella dislocazione territoriale degli investimenti, nonché della migrazione di cittadini e imprese alle nuove reti ad alta capacità.

   

La scelta del governo di non “scalare” Tim, e i suoi debiti, in epoca di nazionalizzazioni modaiole da questo punto di vista appare apprezzabile, specie se la nuova rete che si costruirà sarà gestita da una governance indipendente. In questo periodo si fa molta confusione tra neutralità della governance e statalità della stessa. Se da un lato è vero che la privatizzazione di Telecom è stata un disastro, immaginare una ristatalizzazione sarebbe un doppio regalo ai privati che l’hanno depredata. Bisognerà tenere alta la guardia affinché un’infrastruttura realmente strategica non si trasformi nell’ennesimo carrozzone pubblico e inefficiente. Per centrare un obiettivo virtuoso è sufficiente che il nuovo soggetto aggregatore delle reti si attivi per proporre impegni vincolanti su una tempistica verificabile degli investimenti, anche grazie a capitale finanziario e umano adeguato alla sfida. Sappiamo bene, poi, che non basta realizzare gli investimenti. Occorre stimolare la domanda e far sì che la migrazione degli utenti avvenga velocemente, con garanzia di qualità e con costi sostenibili. Sotto questo profilo, c’è da aspettarsi che le varie authority chiamate a dare la propria autorizzazione imporranno vincoli precisi alle strategie di prezzo, all’accesso e alla migrazione degli utenti, ma anche alla qualità nei processi di assistenza, assicurando una dinamica concorrenziale nei servizi.

   

Una strategia così complessa ha inoltre bisogno che si esca da una logica di contrapposizione ideologica e che si guadagni un sostegno bipartisan e di massima trasparenza in ogni fase del progetto, nei rapporti tra politiche pubbliche industriali e imprese, nel coinvolgimento delle parti sociali, nei rapporti con le authority. A maggior ragione se una parte rilevante di questo progetto si dovesse intrecciare con il sostegno finanziario al settore digitale basato sul Recovery fund. Se si utilizzassero questi fondi come semplice bancomat per gli investimenti avremmo perduto un’importante occasione e creato un inutile carrozzone, per di più in regime di monopolio. Va invece immaginato uno schema di uso incentivante dei fondi pubblici, ma a integrazione dei fondi privati, con meccanismi sanzionatori affidati ai regolatori e con la finalità di garantire tempi certi e accelerati degli investimenti. Per far tutto questo occorre che si superi la fase delle dichiarazioni e che si definisca un chiaro interlocutore pubblico, capace di confrontarsi con le parti interessate e le istituzioni chiamate a dare il loro assenso. Nella consapevolezza che il salto digitale di cui ha bisogno il paese non si ferma certo al settore delle comunicazioni elettroniche, ma attraversa ogni ambito economico e sociale del paese.

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