Andrea Belvedere (a destra) con Sergio Mattarella (foto Ufficio Stampa Quirinale/Paolo Giandotti) 

bandiera bianca

Quello che l'università italiana dovrebbe imparare da Andrea Belvedere

Antonio Gurrado

È morto il civilista che dal 1979 fino al 2021 è stato il rettore del Collegio Ghislieri, lontano da proclami e slogan ma attento alla sostanza, immune alle mode ma sensibile alle evoluzioni. Sintetizzava il proprio lavoro per il collegio in uno schivo “Ho curato molto la manutenzione”

Questa settimana è morto Andrea Belvedere, non solo insigne civilista (a Pavia, a Torino, in Bocconi) ma soprattutto, dal 1979 al 2021, rettore del Collegio Ghislieri, una delle più floride comunità accademiche d’Italia, cui Maurizio Crippa aveva dedicato qualche mese fa un bell’approfondimento. Con quarantadue anni di rettorato, Belvedere ha coperto da solo un decimo dell’esistenza di un’istituzione che dura dal 1567, e ha accolto nel suo mandato oltre millecinquecento matricole provenienti da tutta la nazione (inclusa una versione di me implume e spaurita), guidandole prima e dopo la laurea: perciò, sui giornali e sui social, sono abbondate le testimonianze grate di ghisleriani più o meno celebri di diverse generazioni, che da suoi studenti sono poi diventati ministri, direttori di musei, economisti, musicisti, scrittori, medici, professionisti, docenti universitari a loro volta… Nel congedarlo all’atto del pensionamento, Gian Arturo Ferrari – suo compagno di studi, che poi lo ha affiancato in qualità di presidente della Fondazione Ghislieri – raccontò che Belvedere sintetizzava il proprio lavoro per il collegio in uno schivo “Ho curato molto la manutenzione”. Si riferiva alla difficile gestione di un edificio rinascimentale in cui da secoli abitano dei ventenni, certo, ma anche alla cura quotidiana dei piccoli dettagli che consentono di preservare un istituto di alta formazione fra i marosi di un contesto che continua a mutare e non sempre per il meglio. Il nome di Belvedere è rimasto noto soprattutto agli addetti ai lavori proprio perché ha scelto di dedicarsi in modo certosino alla trasmissione e allo sviluppo della cultura accademica, lontano da proclami e slogan ma attento alla sostanza, immune alle mode ma sensibile alle evoluzioni, aperto senza pregiudizi alle novità purché risultassero concretamente benefiche. Negli stessi anni, dal 1979 al 2021, l’università italiana si è trasformata più volte, alla smaniosa ricerca di una formula magica che ne evitasse la decadenza, e non mi sembra l’abbia trovata. Sarebbe stato meglio se, anziché a tante riforme, ci si fosse dedicati un po’ di più alla manutenzione.

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