I fiori a Bruxelles per le vittime degli attentati (foto LaPresse)

Tutti i pericoli mortali della minaccia islamista per l'occidente

Luciano Pellicani
Il numero dei cristiani si riduce ogni giorno che passa, quello dei migranti islamici cresce a vista d’occhio. E questi ultimi sono i portatori di una cultura religiosa che non ha conosciuto la rivincita del paganesimo, grazie alla quale è emerso il cristianesimo post illuministico e tollerante.

La risposta dell’occidente alla minaccia islamista contiene due potenziali pericoli per le istituzioni sulle quali è centrata la civiltà in cui e di cui viviamo: lo stato di diritto e la laicità.

 

Non pochi oggi sono coloro che, in America come in Europa, per estirpare il terrorismo jihadista, auspicano la creazione di poteri eccezionali. Una richiesta – la loro – che, se fosse accolta, porterebbe – automaticamente e irresistibilmente – all’abolizione di quella che è stata la conquista più preziosa della modernità: lo stato costituzionale, rigorosamente garantista e rispettoso dei diritti dei cittadini. E porterebbe anche all’introduzione della tortura.

 

E infatti, nei mesi successivi al trauma dell’11 settembre 2001, la società americana è stata lacerata da un acceso dibattito sulla liceità di usare metodi brutali per annientare coloro che minacciano la sicurezza nazionale. Contemporaneamente, l’Fbi inviò un rapporto al governo nel quale si sottolineava che, a motivo dei vincoli giuridici vigenti, non era stato possibile ottenere informazioni dai terroristi che erano stati arrestati; e si sottolineava anche che, data la gravità della situazione, era prevedibile che sarebbe stato necessario ricorrere a metodi straordinari, come era già avvenuto in passato.

 

In effetti – stando a quanto a suo tempo, aveva pubblicamente ammesso il giudice della Corte Suprema William Brennan – i governi americani, in tutte le situazioni dominate dalla paura del nemico nascosto, hanno sistematicamente violato i princìpi della civiltà giuridica; e lo hanno fatto con il sostegno di autorevoli opinion makers. Non sorprende pertanto, che il Wall Street Journal, influente organo dei conservatori, pochi giorni dopo l’abbattimento delle Twin Towers pubblicò un editoriale nel quale erano denunciati gli “eccessi del sistema giudiziario penale in vigore negli Stati Uniti”, il quale, con i suoi rigorosi “criteri di ammissibilità delle prove” e con le sue “regole di esclusione delle prove illecite”, rendeva pressoché impotenti gli agenti cui era stata delegata la protezione dei cittadini.

 


Un'immagine dell'interno della prigione di Guantanamo (foto LaPresse)


 

Stando così le cose, non può destare sorpresa alcuna la preoccupazione espressa da numerosi giuristi e filosofi americani che una delle più esiziali conseguenze della guerra contro il terrorismo islamista potrebbe essere l’adozione – di fatto, se non proprio di diritto – di pratiche lesive non solo dei princìpi che sono alla base della civiltà occidentale, ma anche della libertà dei cittadini. Come, per esempio, il monitoraggio delle comunicazioni private, che oggi le sofisticate tecnologie disponibili rendono facilmente attuabile. Il che significherebbe la materializzazione dello spettro del Grande fratello che tutto controlla, vede e sente; e che, in aggiunta, può persino torturare chi, a suo insindacabile giudizio, costituisce un pericolo – reale o virtuale – per la sicurezza nazionale.

 

Di fronte a una tale inquietante prospettiva, il celebre avvocato americano Alan M. Dershowitz – dopo aver ricordato che la “strada della dittatura è sempre stata lastricata dei motivi di necessità addotti dai responsabili della sicurezza di una nazione” – ha invitato i suoi connazionali a tenere costantemente presente la risposta data dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa a chi gli suggeriva di torturare i brigatisti detenuti per salvare la vita di Aldo Moro: “La democrazia italiana può sopravvivere alla perdita di Moro, ma non può sopravvivere all’introduzione della tortura”.

 

Il secondo pericolo mortale che incombe sulla civiltà occidentale è la tentazione di rispondere alla guerra santa in nome del Corano con la guerra santa in nome della Bibbia. Infatti, non poche sono le sette fondamentaliste americane che sono mosse dalla credenza che la “degenerazione pagana” – che, come un cancro morale, affligge l’America – va energicamente contrastata in nome della “inerranza” delle Sacre scritture. Le più potenti delle quali sono la Chiesa dell’unificazione fondata dal reverendo Sun Myung Moon e la Christian Coalition il cui influente portavoce è Ronn Torossian, che non fanno mistero che il loro obiettivo è l’abbattimento del “muro di separazione fra lo stato e la chiesa” voluto dai Padri fondatori della Costituzione americana e l’istituzione di una “teocrazia autocratica” per combattere efficacemente sia il “secolarismo ateo” che l’islam, entrambi percepiti e stigmatizzati come irriducibili nemici dell’America e dei suoi valori cristiani.

 

Alla luce di questo inquietante paesaggio, opportunamente Paolo Prodi ha osservato che, qualora la risposta delle sette fondamentaliste cristiane – centrata sulla bellicosa contrapposizione di una teologia a un’altra teologia – prevalesse sulla risposta laica, l’inevitabile risultato sarebbe “la fine della nostra identità occidentale”, basata sulla rigorosa separazione fra la sfera del sacro e la sfera del profano e, conseguentemente, sul più ampio pluralismo religioso.

 

Ma, oltre al mortale pericolo che, per combattere efficacemente il fondamentalismo islamista, l’occidente ne assuma scimmiescamente i tratti tipici, c’è un altro fenomeno che minaccia le fondamenta della civiltà liberale: la conquista dell’Europa da parte dell’islam.

 

Molti sono gli osservatori che, ancora oggi, trascurano la cosa. Ma la sua rilevanza storica non sfuggì a Gheddafi, quando, rivolgendosi pubblicamente ai jihadisti, ricordò loro che la vittoria dell’islam era ormai una questione di tempo. Lo certificavano i sondaggi e le proiezioni degli istituti di ricerca, da cui emergeva che intorno al 2050 l’islamismo sarebbe stato il credo religioso più diffuso in Europa.

 

Due sono i processi che ampiamente corroborano un tale futuro. Il primo è l’imponente flusso migratorio che sta cambiando – e in modo radicale – la composizione demografica del Vecchio continente. Il secondo è costituito dalla silenziosa potenza espansiva della secolarizzazione che ha fatto emergere un novum così descritto da Enzo Bianchi: “La sopravvenuta condizione di minoranza da parte dei cristiani, minoranza numerica di fronte a una gran massa di indifferenti e di agnostici rispetto alla Fede”. Ancora più desolante la diagnosi dello stato di salute del cristianesimo formulata dallo scrittore cattolico Simon Hyppolite: “Dal momento che né la fede nella creazione, né la fede nella resurrezione di Cristo sono presenti nella maggioranza dei francesi, è inevitabile concludere che essi non hanno più idea di ciò che è o potrebbe essere la fede in un Dio trascendente. In altri termini, la maggioranza dei francesi si trova fuori della tradizione giudaico-cristiana: se essi non procedono più dal monoteismo, significa che procedono da una forma di paganesimo”. Alla stessa conclusione è giunto di recente il sociologo Riccardo Campa, autore di una monografia significativamente intitolata “La rivincita del paganesimo”.

 

Stando così le cose, la previsione fatta da Gheddafi non era certo un sogno a occhi aperti. Al contrario, si basava sulla constatazione di un doppio fenomeno di enormi proporzioni: che, mentre il numero dei cristiani si riduce ogni giorno che passa, quello dei migranti islamici cresce a vista d’occhio. E questi ultimi sono i portatori di una cultura religiosa che non ha conosciuto la rivincita del paganesimo, grazie alla quale è emerso – dopo laceranti conflitti – il cristianesimo post illuministico centrato sul principio di tolleranza. Come non temere che “l’invasione pacifica del proletariato esterno” potrebbe risultare un pericolo mortale per la nostra laicità?