Nella mente a km zero

Antonio Pascale
Viaggio irriverente dentro i tic cultural-intellettuali che ci spingono a tessere le lodi  di frutta e verdura nate e coltivate dietro l’angolo. Istruzioni per confutare tutto, a cena

Ci sono momenti durante i quali ci sentiamo tesi, ansiosi: sono troppi i problemi da affrontare. La desertificazione, il cambiamento climatico, il terrorismo, la foresta amazzonica: del resto, quasi sempre è colpa nostra. Così ci dicono. A volte messi all’angolo, costretti a fare i conti con le nostre responsabilità, ripariamo in un buon ristorante, una cena conviviale, per respirare un po’, insomma una pausa. Il posto è bello, arredato con gusto (vecchie cassette di legno ospitano erbe aromatiche, dal soffitto pendono vasi con salvia e basilico, ah la natura) ma ecco che… ecco che si avvicina il cameriere: è diverso dagli altri. Te ne accorgi dall’espressione, la classica di chi ne sa più di te. Attendi, cominci a entrare in tensione. Lui illustra il menù, descrive i piatti – spesso mentre spiega si gira verso la cucina come a richiamare la presenza dello chef – e in chiosa ti segnala che: sono tutti prodotti di stagione e soprattutto a chilometro zero. Ora, quelli che sono con me, attorno alla tavola, sanno che faccio sì lo scrittore ma anche l’ispettore presso il ministero per le Politiche agricole, da 27 anni oramai. Sanno pure che mi piace far polemica e allora, in occasioni simili mi lanciano un’occhiataccia: godiamoci la cena, eh! Sì si, infatti, godiamoci la cena, penso io, e dunque mi concentro sul menù finché mentre parlottiamo dell’eventuale dessert – allora eravamo a gennaio – il cameriere dice che le fragole no, non ce l’hanno ancora, del resto spiega, con espressione seria, non sono né di stagione né a chilometro zero. A me sale nuovamente l’ansia: la desertificazione, il cambiamento climatico, il terrorismo, la foresta amazzonica, e il chilometro zero. Allora ribatto: passi per il chilometro zero, tuttavia la fragola si mangia – anzi si deve mangiare, per il bene della nazione – anche a gennaio.

 

Godiamoci la cena, mi dicono. Ma niente, ho l’ansia e mi devo sfogare: perché siamo combinati così? Da una parte desideriamo l’autarchia regionale, appunto, il chilometro zero, dall’altra sappiamo che è necessario esportare, tanto è vero che anche il più astuto dei commentatori agricoli, Carlo Petrini, sa che, insomma, conviene non essere così rigidi sulla questione chilometro zero. Voglio dire: il vino lo possiamo esportare? Certo, sì. E le verdure? E le verdure dipende, forse sì, forse no. Però prima, dico ai commensali, fatemi spiegare questa cosa della fragola.

 

Negli anni 80 la fragola era disponibile sul mercato italiano da marzo ad aprile, 2/3 settimane di picco, poi il consumo decresceva. Ora abbiamo le fragole tutto l’anno. E qui mi devo fermare perché noto un attacco collettivo di sapere nostalgico che si impossessa dei commensali: eh, una volta sì che si potevano mangiare anche le fragole! Una volta sì che si rispettavano le stagioni! Una volta sì che le fragole sapevano di fragole! No no, dico, attenzione, è una cosa bella, la destagionalizzazione. Cioè cercate di vedere l’aspetto positivo. Da gennaio comincia la Sicilia (va bene, in serra, sono un po’ care), poi arrivano la Calabria e la Basilicata, la Campania, il Lazio, poi l’Emilia Romagna e la Valle del Po. E in estate? Il Trentino e tutta l’area alpina. Miracolo? No, ci sono due modi. Il primo: la fragola ha bisogno di freddo per fiorire, quindi le piantine vengono coltivate in zone fredde, nei Pirenei, in Spagna, o in Polonia, e poi, congelate, arrivano in Italia, qui vengono piantate e dopo un po’ la produzione può cominciare. Dunque, vero, sono italiane solo in parte – insomma un po’ hanno viaggiato – ma sono ottime e ringraziamo quei contadini non italiani che hanno lavorato per noi. Come noi dovremmo ringraziare chi apre i suoi mercati ai nostri prodotti: chi scambia vince e innova. Chi si isola perde e non innova. E soprattutto se mangiamo la fragola a gennaio, per esempio, diamo una mano ai contadini siciliani che tra l’altro spuntano un prezzo migliore perché la produzione è diversificata e non concentrata tutta in pochi mesi. Attenzione – aggiungo con il dito puntato contro l’universo – secondo modo per destagionalizzare: nel 1955 negli Stati Uniti è stata scoperta una fragola selvatica la cui fioritura non dipende dalle ore di freddo accumulate, si chiama Fragaria virginiana. Nel 1980 i genetisti sono riusciti a trasferire questo carattere nelle fragole coltivate. Non vi dico il lavoro: per passare questo gene da una varietà selvatica a una coltivata. Comunque le nuove varietà producono quasi tutto l’anno. E non vi dico il lavoro, tutto a mano, 4.000 ore all’anno per coltivare un ettaro di fragole.

 

Bene, dicono i commensali: ti sei sfogato? Mangiamo! E no dico io, aspettate: abbiamo perso la stagionalità? Sì, l’abbiamo persa, ma abbiamo recuperato gli antiossidanti. Stiamo sempre a parlare di antiossidanti: quelle sostanze che rallentano l’invecchiamento, un giorno sì e un giorno no ne parliamo, ebbene, rispetto alle mele, ai pomodori, le fragole ne contengono da 2 a 10 volte di più. Cioè, stiamo quasi sul livello dei cavoli, ma le fragole te le puoi mangiare a colazione, i cavoli no! Vabbè, nessuno ride, hanno tutti fame e cominciamo dunque a ordinare, ora non c’è più il cameriere ma il maître di sala, e pure lui insiste un po’ sul chilometro 0 e sulla stagionalità, e a me viene da fargli una domanda. Gli chiedo, così a bruciapelo: ma le pere si coltivano più a sud o più a nord? Incredibile, non solo il maître ma anche i commensali dicono: a sud. Come al sud? E no, allora, guardate è necessario fare una cartina geografica della nostra agricoltura. Uff… sbuffano tutti e cominciano a evitare il mio sguardo, ma io furbo, fisso il maître e inizio a elencare una serie di prodotti e li abbino alle regioni. Le pere? quasi per la maggioranza, per il 75/80 per cento, vengono da quattro province emiliane, Bologna, Mantova, Modena e Ferrara, il nostro paese è leader della produzione in Europa, 770 mila tonnellate, ed esportiamo anche. Poi le mele, da dove vengono? La maggior parte dal Trentino, ma anche dal Piemonte (mele rosse) dalla Lombardia, abbiamo anche mele da pianura, la Fuji, per esempio. Cambiamo, andiamo al sud, l’80 per cento degli agrumi viene da Sicilia, in gran parte, ma anche Calabria, Puglia. L’uva da tavola: Puglia in gran parte e Sicilia, nel ragusano. Attenzione chiedo, attenzione: l’uva quando si coglie? Nessuno risponde. Una volta, dico, era un lusso. Poche settimane di fragranza e dolcezza. Ora invece da settembre fino a Natale. Vengono dal Cile, dice uno – ma lo fa per prendermi in giro, è distratto, sta scegliendo dal menù. Nooo, quasi urlo, non vengono dal Cile, a parte che non si sarebbe niente di male… c’è una tecnica agronomica che ci permette di allungare la stagione dell’uva. Pausa. Adesso, penso, qualcuno, come il maître per esempio, mi chiederà spiegazioni… Aspetto, niente. Allora – ormai il mio è un monologo – provo la stessa malinconia e la stessa determinazione degli attori costretti a recitare per una scolaresca chiassosa: finché sta sulla pianta il grappolo si conserva bene, non perde fragranza e grado zuccherino, ma non deve piovere! Sennò arrivano i funghi e attaccano e rovinano gli acini. Dunque semplicemente copriamo la pianta, come con un ombrello. Sapete chi ha inventato sto trucco? I ricercatori pubblici di Turi, vicino Bari, e ora lo usano dappertutto. Oh, poi si può anche anticipare la produzione, si copre con la plastica la pianta sopra e ai lati, così la si inganna, crede di stare al caldo e anticipa la produzione. Se la pianta è protetta sta meglio, vive pure di più, quindi viva la plastica, sì, lo voglio dire, e fatemi sfogare, fatemi gridare (in effetti sto alzando la voce) viva la plastica – tanto poi i teli vengono raccolti e riciclati, quando fanno le cose a dovere – che fa durare l’uva di più e quindi abbiamo più tempo per mangiarla e assorbire i polifenoli.

 

I polifenoli no? Le sostanze anti invecchiamento, ne parliamo un giorno sì e un giorno no. Le insalate si fanno dappertutto, in Campania specialmente, e in Veneto, i meloni vengono da Mantova e dalla Sicilia, e poi mi viene in mente una domanda a trabocchetto, allora prendo il commensale alla mia sinistra che ha ordinato e mi sembra soddisfatto e gli chiedo: le pesche da dove vengono? Pensaci bene. Lui mi dice: che ne so, dal sud! Noooo, insisto: cioè, sì, la Basilicata coltiva un po’ di pesche e albicocche, ma i maggiori produttori sono… Sono? Niente. Sono, dico, soprattutto per le pesche: il Piemonte e l’Emilia Romagna. Le ciliegie in Toscana, in Puglia ed Emilia Romagna. Piccolo inciso per le ciliegie. Non mi parlate delle ciliegie di una volta, no perché in passato noi abbiamo rischiato di perderle, per sempre. Le ciliegie si raccolgono a mano, con tutto il peduncolo, perché se stacchiamo il peduncolo poi da quella ferita possono passare funghi e insomma, si rovina il frutto. Ora, mi dite voi: chi si arrampica fino a dieci metri di altezza? Se lo faccio io poi mi dovete pagare assai. E infatti, nei gloriosi anni 80, il costo di raccolta di ciliegie era più del 50 per cento del costo di produzione. Però in provincia di Bari c’era una varietà molto buona, la Ferrovia– la leggenda vuole che il primo albero sia stato trovato vicino ai binari della ferrovia, e siccome l’analisi del Dna ci dice che la varietà è originaria dell’Europa del Nord, probabilmente un nocciolo di questa ciliegia è stato sputato fuori dal finestrino, che so, da un tedesco che viaggiava sui nostri treni del sud. Ora questa varietà è bassa, e allora si può usare come portainnesto e così facendo si sono ottenuti alberi di due/tre metri, te la puoi cavare anche senza scale, così i costi di raccolta sono scesi. Tra l’altro è già in commercio una varietà senza peduncolo, insomma, si stacca senza produrre la ferita. Voi dite: a che serve? Serve, serve, perché puoi raccogliere le ciliegie semplicemente scuotendo la pianta, così i costi di raccolta si abbassano. Ora, dico, l’immaginario bucolico che abbiamo ci condanna al passato (per favore, chioso ai commensali, guardatevi i video di Duccio Caccioni, pochi minuti e tante informazioni, non leggete sempre e solo Petrini) e tuttavia tutte le nuove colture nascono dall’innovazione, l’innovazione, a sua volta, nasce dall’esigenza di risolvere un problema con strumenti moderni. Senza scambi culturali (non a chilometro zero), senza un’apertura mentale non innoviamo, anzi rischiamo di chiuderci nel nostro orto. Volete un esempio di chiusura? C’è questo piccolo saggio di Paolo Giudici – e lo so, lo cito sempre, tuttavia non tutti lo conoscono e io ho sempre gli stessi 10 lettori, quindi ogni volta che posso divulgo il verbo. Si chiama: “Prodotti alimentari e il falso mito dei microrganismi autoctoni”. Sembra che non c’entri con la questione “chilometro zero”, però c’entra, come dire, riguarda una certa esagerazione del concetto di piccolo è buono. Ovvero: tutto ciò che è di casa nostra è buono, tutto quello che viene da fuori è male. Lega? No no, una certa sinistra slow. Vediamo che scopre Giudici. Evento tenutosi a Pollenzo in occasione dell’apertura del Cheese di Bra, la rassegna di Slow Food dedicata ai formaggi. Qui si sostiene che “il Parmigiano-Reggiano è autoctono”. Infatti la tecnologia di trasformazione del latte (speciale, particolare, definito “oro bianco”) in formaggio, realizzata in caseificio, vuole esaltare l’attività e la fermentazione dei batteri “autoctoni”, cioè quelli nati nel territorio.

 

[**Video_box_2**]Altrimenti che senso avrebbe parlare di origine? E’ come dire che il “re dei formaggi” non si accompagna con i batteri di importazione, o se vogliamo, i batteri “extra comprensorio d’origine”. Insomma, il Parmigiano-Reggiano, così unico, così particolare, diventa così buono, senza l’aggiunta di batteri estranei, grazie ai fermenti presenti sul territorio, dove si produce il latte, e non altrove! Insomma: vogliamo solo batteri di casa nostra e non di importazione, niente batteri immigrati. Giudici si mette con santa pazienza cercando di spiegare che: a) le dimensioni dei batteri sono molto ridotte e il loro universo può essere anche di pochi millimetri, non certo grande come il comprensorio; b) il comprensorio non è omogeneo per temperature, piovosità, suolo e altro ancora; c) i microrganismi non conoscono la geografia, quindi, per loro è difficile distinguere tra Mantova destra Po e Bologna sinistra Reno o viceversa; d) i coliformi fecali sono i microrganismi sempre presenti e in gran numero nel latte crudo. I veri autoctoni! e) la razione alimentare delle vacche da latte è composta di una quota elevata di mangimi extra aziendali ed extra comprensorio; f) la qualità microbiologica delle acque d’irrigazione, visto l’alto grado d’antropizzazione del territorio e l’intreccio tra acque d’irrigazione e acque scure, ha un alto grado di contaminazione da microrganismi fecali. Voi capite bene che quando si ha un immaginario così piccolo, tutta concentrato sul proprio orto, poi si commettono peccati come quello di cui sopra: batteri di casa nostra. E se si fa peccato a importare batteri, pensate come ci si sente in colpa se abbiamo preso le fragole a 100 chilometri da casa. Signore e signori – a questo punto mi sono alzato sulla sedia – credetemi, sono 27 anni che faccio questo lavoro, su e giù per i campi, ne ho visti di contadini, campi e prodotti, posso dichiarare che i problemi della nostra agricoltura sono altri: imprese piccole, frammentante, manodopera anziana, costi alti. Sono le suddette questioni che rendono difficile e costoso il nostro rapporto con la terra. Vi scongiuro, non ci chiudiamo, anzi apriamoci al mondo, oggi abbiamo il dovere di innovazione (perché ci sono problemi nuovi che vanno affrontati con nuovi strumenti) lasciamo che i nostri prodotti varchino (se sono buoni) le frontiere e che i prodotti degli altri (se sono buoni) varcano i nostri confini. Se c’è competizione c’è anche innovazione, se ci sono solo i batteri di casa nostra poi ci sono solo sensi di colpa per aver scelto un batterio dall’altra parte del Po. Ora, scusate, per lo sfogo ho avuto un calo di zuccheri, vado a mangiarmi un po’ di Nutella che come voi sapete è un prodotto globale. Tanto è vero che le nocciole vengono dalla Turchia, il cacao dalla Nigeria, lo zucchero dal Brasile, la vaniglina dalla Francia, l’olio di Palma dalla Malesia… No no, attenzione: l’olio di palma non è così dannoso. Sì, lo so che si dice che…

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