In Svezia l'hanno capito: le politiche family friendly fanno bene all'economia

Simonetta Sciandivasci
Le politiche per la famiglia non fanno bene solo a chi vuole mettere su famiglia. Ma anche al sistema economico del paese

Al secondo posto nella top ten delle ragioni per cui la Svezia è family friendly (cioè un bel posto per metter su famiglia) c'è "il congedo parentale lungo e ben pagato". Ai neo genitori del paese nordeuropeo, infatti, spettano ben 480 giorni di assenza dal lavoro, remunerati all'80 per cento del loro stipendio normale, dopo la nascita o l'adozione di un figlio e fino al compimento del suo ottavo anno di vita (fino ad allora, oltre ai 480 giorni, madre e padre possono legittimamente chiedere una riduzione del 25 per cento del proprio orario lavorativo). Commovente e pure struggente, se pensiamo che in Italia, in primavera, si discuterà della possibilità di estendere il congedo paterno a quindici giorni, sempre con stipendio pari all'80 per cento del normale: non siamo molto family friendly. Era il 1974 quando la Svezia sostituì il congedo materno con quello parentale, suggerendo al mondo che i figli sono onere di entrambi i genitori e che spetta a entrambi il diritto-dovere di accompagnare, a tempo pieno (rinunciando, quindi, per un po', al lavoro), i propri figli nelle loro prime settimane di vita. Non funzionò subito: persino nella patria dell'avvenirismo dei diritti e del gender equality è esistito un imbarazzo socio-culturale che impediva ai padri di non sentirsi de-mascolinizzati dal rimpiazzare l'ufficio con le pappe. Per questo, nel 1995, il governo di Stoccolma introdusse le "daddy quota" (praticamente, le quote azzurre della paternità): i padri erano tenuti, pena la perdita di un mese di ferie, a richiedere un congedo parentale di trenta giorni. Nel 2002 si passò a sessanta giorni, oggi la quota azzurra ne prevede novanta. Risultato: la percentuale di donne svedesi che abbandonano il lavoro dopo la gravidanza è del tutto trascurabile e, soprattutto, ben nove padri svedesi su dieci ricorrono al congedo parentale.

 

Quartz riporta la riflessione di Pia Schober, ricercatrice in ambito differenze di genere presso il German Institute for Economich Research, secondo la quale la sola ragione per cui il modello svedese è virtuoso sta nel fatto che esso non comporta una significativa diminuzione dello stipendio. Il solo incentivo, quindi, al funzionamento del sistema del congedo parentale è il denaro. La condivisione della genitorialità (un giorno dovremo pur chiederci se l'esistenza di una parola come questa, che fa dell'essere genitori un fenomeno culturale, sia compatibile con i criteri di aspirazione a società family friendly), l'uguaglianza di genere, la spartizione di ruoli con un righello attento al centimetro, la riscoperta della paternità e della sua tenerezza, la cura dei figli intesi finalmente come onere condiviso e non più vessillo esclusivo della maternità: nulla di tutto questo c'entra davvero.

 

[**Video_box_2**]La questione è meramente economica e i paesi che lo capiscono per primi, per primi ci guadagnano. Punto. Shinzo Abe, quando presentò il piano di rilancio economico del Giappone, non dimenticò il congedo materno, in modo da eliminare (così pensava) la piaga della rinuncia delle donne al posto di lavoro per poter fare le madri a tempo pieno: errore. Il congedo deve essere parentale, non soltanto materno, perché altrimenti si perpetra la discriminazione di genere che, da sola, basta a tenere lontane le signore dalla vita attiva. E la vita attiva ha bisogno delle gonne per fare bei numeri, non certo perché si curi del rendere il mondo un posto accogliente per chi vuole metter su famiglia: quella, al massimo, se tutto va bene, è una conseguenza indiretta. Al pari della riscoperta della paternità a mezzo congedo parentale, tant'è che i maschietti che restano a casa a badare ai figli lo fanno esclusivamente se ben pagati. Complimenti alla Svezia per averlo capito.

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