Monopolio non ti temo

Carlo Lottieri

Le due vicende Rizzoli-Mondadori e Mediaset-Rai hanno un punto in comune, oltre al coinvolgimento delle aziende del Cav. Si tratta di iniziative imprenditoriali che vengono avversate sulla base di una teoria della concorrenza oggi prevalente, ma anche contestata da una serie di studiosi liberali.

Le due vicende Rizzoli-Mondadori e Mediaset-Rai hanno un punto in comune, oltre al coinvolgimento delle aziende del Cav. Si tratta di iniziative imprenditoriali che vengono avversate sulla base di una teoria della concorrenza oggi prevalente, ma anche contestata da una serie di studiosi liberali.

 

Chi giudica negativamente fusioni, acquisizioni e ogni operazione che riduca il numero dei soggetti attivi in un settore, muove dalla tesi che un mercato è davvero tale (e cioè competitivo) solo quando vi sono al suo interno un ampio numero di soggetti e/o quando nessuna azienda ne detiene una quota elevata. Ogni iniziativa che porti ad accorpare imprese sarebbe quindi una minaccia alla concorrenza. E quanti sostengono questa teoria – fin dai tempi di Edward Chamberlin e Joan Robinson – possono chiamare in causa anche Adam Smith, che in un celebre passo denunciò come pericolosa ogni collusione tra imprenditori orientata a restringere e limitare la concorrenza. La regolazione legislativa del mercato e l’antitrust – a partire dalle norme di fine Ottocento introdotte negli Usa (lo Sherman Act) – trarrebbero a loro giustificazione da ciò.

 

Molti studiosi liberali hanno però una visione del tutto differente. In particolare, vari economisti e filosofi – da Murray N. Rothbard a Bruno Leoni, a Pascal Salin – hanno enfatizzato la differenza tra monopolio legale e monopolio economico (o “di fatto”) e l’hanno fatto rinviando proprio al tema della proprietà.

 

Per loro la proprietà va protetta e tutelata, e quindi va riconosciuto il pieno diritto dei titolari di cedere e acquistare. Senza questo, non abbiamo mercato ma altro. Per giunta, a rigori ogni proprietà è un monopolio e questo vale anche per quei monopoli di fatto che emergono sul mercato attraverso il normale ampliarsi della clientela o l’acquisizione di imprese.

 

Sul piano teorico ogni proprietà è un monopolio. Questo vuol dire che se non si distingue tra il monopolio derivante dall’azione pubblica coercitiva (il monopolio legale che impedisce a qualcuno di essere attivo su un mercato) e quello che invece emerge tramite le libere e pacifiche relazioni di mercato si finisce per minare la proprietà stessa e, di conseguenza, il diritto e la libertà.

 

Per giunta, come si può definire un settore e quindi un monopolio? Non è facile, dato che in qualche modo ogni venditore compete con ogni altro. E poi: un’utilitaria e un’automobile di lusso sono nello stesso mercato? No di certo, né è facile definire la dimensione territoriale, dato che chi è monopolista in una città è magari poca cosa in rapporto al paese o addirittura al mercato globale. Quando allora si abbandona la distinzione tra monopolio “legale” (il monopolio che i liberali avversano) e quello “di fatto” si entra in un universo in cui ogni cosa è possibile e alla fine prevale l’arbitrio.

 

La prospettiva dominante ignora però tali problemi teorici. Essa riconosce che i monopoli possono derivare da decisioni politiche, e quindi da norme che chiudono il mercato, e afferma però che essi possono emergere pure da contratti non riconducibili ad atti coercitivi. In tal modo viene resa possibile la più ampia contestazione della proprietà e della libertà negoziale. Quelli che la prassi delle agenzie antitrust ritengono comportamenti collusivi, con finalità monopolistiche oppure oligopolistiche, sono in realtà accordi tra proprietari: i quali, per la teoria liberale, hanno il pieno diritto di fare tutto ciò.

 

[**Video_box_2**]Non si dimentichi, d’altro canto, che ogni innovatore è per definizione un monopolista, poiché realizza per primo e da solo qualcosa che nessun altro faceva prima. Se fosse coerente, una politica contro i monopoli di mercato dovrebbe impedire ogni innovazione, la quale crea un suo mercato, o procedere immediatamente a distribuire i benefici di quell’iniziativa.

 

Cosa temono, per di più, quanti avversano le fusioni e perfino i grandi successi di questo o quello? Essi temono che il monopolista di fatto – o anche il piccolo gruppo di imprese presente in un settore – possa alzare i prezzi e abbassare la qualità. Ma in un libero mercato è difficile che questo possa succedere, dato che i capitali sono esattamente alla ricerca di settori in cui vi sia uno o pochi produttori e che lavorano male. In altre parole, in un mercato davvero aperto ogni monopolista è esposto a una concorrenza potenziale che scoraggia quei comportamenti.

 

Secondo molti liberali, insomma, un libero mercato non lo si costruisce con regole e autorità, ma rispettando la proprietà e l’autonomia contrattuale.

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