Luigi Gubitosi è nato a Napoli il 22 maggio 1961. E’ direttore generale della Rai dal 17 luglio 2012

Rai contro Rai

Salvatore Merlo

Ritratto di Gubitosi e delle sue spade di latta. Il direttore generale vuole intestarsi una riforma last minute. Renzi ne ha in mente una diversa e non gli dà ascolto. Storie e romanzi di potere

Veste in giacca e cravatta, l’occhio fermo, la posa sicura, il grado di direttore generale e in più l’aria un po’ americana dell’uomo di mondo, di chi ha viaggiato, studiato a Londra, e ben amministrato telefonia e banche, dall’uno all’altro mar. Eppure quando Luigi Gubitosi entra nel suo ufficio al settimo piano di Viale Mazzini, alla mattina, e da circa un anno chiede alla segretaria di passargli qualcuno del governo, per lui quella linea è sempre occupata, e il direttore generale rimane così eternamente impigliato in un gioco di futilità introduttive, di carillon musicali, di cortesi temporeggiamenti da centralino telefonico. E quando gli capita finalmente d’incrociare per ventura un sottosegretario qualsiasi, quello di solito gli risponde con un muto sorriso e cortese, tanto più largo quanto meno è interessato. Dunque c’è qualcosa di strano, di curioso, forse persino di rancoroso, chissà, in questo direttore generale che – “dopo aver passato tre anni senza toccar nulla di tutto ciò che era importante”, come dice Aldo Grasso – a due mesi dalla scadenza del suo mandato, improvvisamente tutto vuol muovere e tutto vuole riformare, ma senza l’appoggio del governo dei riformisti, dei ragazzi fiorentini che, sì, lo lasciano fare, ma che nel cassetto hanno una loro riforma di cui parlano profusamente con chiunque – anche inviando sms a mezzanotte: “Dammi cinque idee sulla Rai” – tranne che con lui. Dicono che ancora a Gubitosi capiti di sollevare la cornetta senza crederci, e che un po’ trattenuto dal molle e tenace vischio d’innumerabili delusioni, malgrado tutto, ancora insista, coltivando nel cuore una remota speranza sempre tradita con monotona e crudele pendolarità: “Purtroppo il presidente Renzi è in riunione”. E la cosa lo spinge comprensibilmente sull’orlo della disperazione. “Vogliamo fare della tivù di stato la più innovativa azienda di produzione culturale”, ha detto Renzi, proprio su Rai 1, annunciando che “questo sarà l’anno della Rai”, l’anno di una grande riforma di sistema da presentare in Parlamento a marzo. E Gubitosi? L’effetto è stato crudele, commovente e forse persino un po’ comico. Infatti a un certo punto, Luigi De Siervo, il direttore commerciale che Gubitosi ha coccolato e promosso nell’olimpo dei manager Rai, lui che viene da Firenze come il premier, deve aver preso per sfinimento Luca Lotti, il silenzioso architetto di Palazzo Chigi, lui che tesse dove Renzi disfa: “Almeno, vi prego, una volta fatevi vedere”. E così Lotti, un pomeriggio e in gran segreto, e soltanto dopo aver verificato l’agenda del presidente del Consiglio (“Oggi Matteo è a Roma?”, “no”, “allora fate venire pure Gubitosi”), ha fatto sgattaiolare il direttore generale dall’ingresso laterale del Palazzo, “prego si accomodi”. Ebbene, nessuno ovviamente sa come sia andata, ma nell’orgoglio incrinato di Gubitosi, questo napoletano sulla cinquantina, alto, con gli occhi piccoli, le spalle spioventi e l’aria da analista della McKinsey, dev’essere successo qualcosa. “Matteo Renzi e il ministro Padoan li sento al mio fianco, ma chi ricopre certe responsabilità sa bene che i problemi vanno affrontati per tempo. Le aziende che hanno fronteggiato i problemi all’ultimo momento hanno fatto tutte una brutta fine”, ha detto Gubitosi a Repubblica, con tagliente allusività. E insomma è come se quel mutismo da rottamatore, quello studiato e tattico slalom di Renzi, gli avesse instillato l’insicurezza velenosa d’essere decaduto a buon amministratore ma di gesso, a ornamento piacevole dell’azienda, a delegato e direttore generale dei soprammobili. E allora: “Tu non mi parli? Ora te la faccio vedere io. E riformo”. Così, ora che a maggio sarà costretto a lasciare la sua bella stanza del settimo piano, questo direttore generale costretto a frollare lontano da Palazzo Chigi, annuncia il suo personale riassetto della televisione pubblica, e svela al mondo la rivoluzione copernicana dei telegiornali, che contempla la necessaria riduzione dei direttori, l’atteso cambio delle testate, la fusione di Tg1 e Tg2, di Tg3 e di Rainews. E poiché è ovviamente anche uomo di buone letture, cita oscuramente Victor Hugo, “il tempo della rivoluzione e arrivato”, dice, “l’Italia ha bisogno di modernità”, si diffonde, e per ciò s’appresta a spostare 1.700 giornalisti, quasi trecento montatori, registi, tecnici, assistenti di studio, telecineoperatori come pedine sulla scacchiera della sua vasta ma tuttavia ormai caduca giurisdizione. Giovedì presenterà al Consiglio d’amministrazione della Rai il più grande rivolgimento che la televisione pubblica abbia mai visto dall’inizio dei tempi catodici, nientemeno. La prima e ultima grande fusione, dentro la Rai, fu dieci anni fa, tra il Tg3 e i Tg regionali. Ma fallì.

 

E forse nessun direttore generale, nella formula fredda, astratta, impersonale del proprio titolo, “direttore generale”, riesce a ritrovare le mansioni via via più delicate e complesse che ritiene gli siano state affidate non solo dal governo ma addirittura dalla storia, le proprie doti organizzative e ideative, “dunque tutti vogliono fare di più, essere di più, lasciare, come si dice, la propria impronta”, dice per esempio Giovanni Minoli, allargando le braccia. E Gubitosi, ombroso e difficile come richiede il ruolo, è in sostanza l’uomo che ha ridotto le spese, ha quotato un pezzo d’azienda in Borsa, ha fatto dimagrire l’elefante, ha diretto il traffico dolente del lavoro impiegatizio e frustrato, ma è anche il funzionario che per tigna o remoto senso della vendetta, s’è messo in testa d’essere un uomo del destino, colui il quale deve agire, in un’assordante, improvvisa frenesia di riforme, come per ricacciare dentro un grumo di disagio, una scontentezza, una intermittente impressione d’essere mancato alla prova decisiva. “Riformare la Rai è un atto politico e culturale, non è roba da ragionieri. Mi chiedo che senso abbia il piano napoleonico di un direttore generale in scadenza, portato all’approvazione di un cda in scadenza”, dice Minoli. Gli anni! Come una rosa che sfiorisca: i petali, uno dopo l’altro… Nel nulla.

 

[**Video_box_2**]Ma la Rai è ancora e per sempre un universo di senso e controsenso in cui è facile perdersi come nelle nebbie dell’Ade. E così la riforma di Gubitosi, che si spelacchia nella vanità ferita del suo autore, d’improvviso s’impasticcia ancora di più nella resistenza corporativa e nella melassa della politica parlamentare, in quel giogo che l’azienda sempre preferisce alla cultura d’impresa vissuta come umiliazione, risparmio, luci spente, redazioni accorpate, e che prefigura una ringhiosa riluttanza anche alla riforma di Renzi, lui che vuole togliere il morso della politica alla Rai, creare una fondazione che ne detenga la proprietà, ridurre i consiglieri d’amministrazione da nove a sei, forse cancellare anche la commissione di Vigilanza. E infatti i colleghi della Rai, quando li incontri in Transatlantico (il che non è difficile poiché sono più di settanta solo quelli con accredito permanente) all’inizio ti dicono tutti che è una cosa molto importante, per carità, una riforma necessaria, “il modello europeo”, “la razionalizzazione”, “l’offerta”, “il prodotto”, e anche noi dobbiamo adeguarci “ai tempi” che sono quello che sono, “che senso ha avere otto telegiornali?”… ma poi abbassano il tono della voce, lo sguardo si fa confidenziale, e poiché la maldicenza è forse l’estremo rifugio dell’individuo indipendente, il privato territorio dove ognuno può ancora esercitare le proprie capacità di giudizio e di osservazione: “E’ un pasticcio punitivo”. E c’è la resistenza degli otto direttori, dei trentadue vicedirettori, e poi le centinaia di caporedattori e inviati e corrispondenti e incaricati speciali, dei semigraduati e distaccati, dei dispensati e degli indennizzati che traballano e sussultano e beccheggiano: “Se si fondono il Tg1, Tg2 e Rai Parlamento chi lo farà poi il quirinalista?”, “e quando Rainews sarà una testata unica con il Tg3 e il Tgr chi resterà a New York?”. Uno stillicidio di allusioni e cupi silenzi in quel casermone color pidocchio dove, a Saxa Rubra, tra merletti di cemento, si registrano i programmi e vanno in onda i telegiornali, e dove nei corridoi, dentro le mille tane che vi si affacciano, quando frughi con gli occhi le stanze tutte uguali ti sembra che da ogni angolo sbuchino tesi richiami: “Due telegiornali, due soli direttori. Mario Orfeo o Marcello Masi? Bianca Berlinguer o Monica Maggioni? Con chi devo stare?”. E questo clamore ha, ben netta, l’inflessione corale della supplica lamentosa, anche se c’è chi, con neghittosità, guarda sogghignando i rivolgimenti, le innovazioni, i progressi, le emancipazioni, le rivoluzioni di cui la sua azienda, ciclicamente continua a credersi protagonista. Ma in generale il patema testimoniale, appiccato il fuoco alle anime, deflagra, per soprassalti, elisioni, rigurgiti: “Che ne sarà di me?”, e si scatenano le telefonate, le solite di sempre, al parlamentare e al capogruppo, al cugino e al sottosegretario. E ci sono i sindacati e l’Usigrai, tutti piacevolmente eccitati dalla vaga inquietudine che li coglie leggendo i giornali, loro che minacciano d’ingaggiare con Gubitosi (che tuttavia presto se ne andrà, e le grane non saranno sue) una guerra sorda, insistente, fatta di esposti e contro esposti, ricorsi, affronti e maldicenze, dove si dimostra che la Rai sarà per Renzi, quando a marzo vorrà tentare di morderlo, un osso più duro della Cgil di Susanna Camusso. “E Gubitosi, che è un re travicello, che a maggio dovrà lasciare la Rai, cosa pensa di poter fare? Una modesta razionalizzazione, nel marasma, tra il cosiddetto partito Rai e i famelici partiti politici. Non sarà questo intervento a restituire credibilità all’informazione della Rai. E’ come per le squadre di calcio, se non hai i giocatori, se non hai quelli che la buttano dentro, non viene fuori nulla”, dice Grasso. E Minoli: “Renzi finora si è tenuto lontano perché la Rai è una balena spiaggiata. E ci puoi fare solo due cose con una balena piaggiata: o lasci che sia fatta a pezzi e vada in putrefazione o la agganci con un rimorchiatore che la riporta a largo e la fa nuotare anche se ferita. Ci vogliono meno uomini di conti e più uomini di concetto, meno corporate e più prodotto”. La cultura d’impresa fa sorridere certi ben conservati capistruttura di Viale Mazzini (età media 50 anni, anzianità aziendale media 30 anni), ma quella cura, anche solo minacciata, nei corridoi ha l’effetto di una purga e, adesso, nessuno più storce la bocca dinanzi ai politici che sgomitano e s’impicciano, che biascicano parole dal suono minaccioso e contemporaneamente vano, anzi questa è una vecchia e cara musica, figuriamoci! E dunque eccoli i politici da commissione di Vigilanza, “l’istituto tardo sovietico”, come lo chiama Grasso, “la melassa in cui tutto affoga”, che si ritraggono come lumache in guscio nel sussiego della terminologia ufficiale, che è il latinorum di Manzoni. E dunque si riuniscono, scrivono, parlano, vagliano, “rivendichiamo il nostro ruolo istituzionale”, dice Pino Pisicchio, e sono parole che non vogliono dir nulla, o quasi nulla, ma servono come non altre ad abbagliare gli ignari. E infatti poi i giornali sintetizzano così, lo stesso giorno: “Piano Rai, ok della Vigilanza” (il Messaggero); “Piano Gubitosi, no della Vigilanza” (la Repubblica). E sentite cosa dice il presidente della commissione, Roberto Fico, che è un grillino, ma ha già imparato il codice dell’ovvio bollito, come il cibo per malati, il linguaggio esatto e povero del sottobosco parlamentar-aziendale, un codice che a guardar meglio rivela tutta una dimensione prevedibile e inutile: “Abbiamo affermato come l’informazione libera e plurale sia un principio condiviso ed ineliminabile”. Accidenti. E’ possibile immaginare una prosa più chiara e insieme più oscura, vale a dire più romana di questa? Così alla fine, Michele Anzaldi, che è un appassionato deputato del Pd, invece di parlare, va scuotendo la testa e sbattendo le mascelle, alla maniera dei siciliani quando sentono che qualcosa non va come dovrebbe: “Non l’abbiamo né bocciata né promossa”, e siamo evidentemente ben più avanti rispetto all’ossimoro perturbante della psicanalisi freudiana. “I due grandi nemici della Rai sono il cosiddetto partito Rai, cioè quelli che hanno in mano la macchina degli appalti, del personale, quelli che non vogliono cambiare nulla perché perderebbero il potere”, dice Grasso, “e poi i politici, persino i grillini, che appena entrati in Parlamento si sono fatti dare la presidenza di una commissione che andrebbe solo abolita. Tutte forze che non si abbattono con la vanità riformista di un direttore generale che sotto il governo Monti, che lo sosteneva, non ha fatto niente. Ci vuole un intervento legislativo, radicale. Anche dando la proprietà a una fondazione, come pare voglia fare Renzi. Purché poi dentro la fondazione non ci finiscano i residui della politica. Oggi è servizio pubblico chi fa servizio pubblico, non chi lo è per statuto”. Giovedì Gubitosi si presenterà di fronte al lottizzatissimo cda della Rai, chiuso in un guscio forse sicuro, prezioso, inalterabile, o forse invece di una fragilità senza avvenire, vuole riformare l’immutabile eternità di foresta che domina la Rai e poi andarsene, “rifiuto di essere sospinto su un binario morto”, dice, e Renzi lo lascia giocare.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi erasmiana a Nottingham. Un tirocinio in epoca universitaria al Corriere del Mezzogiorno (redazione di Bari), ho collaborato con Radiotre, Panorama e Raiuno. Lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.