La cancelliera tedesca Angela Merkel (foto LaPresse)

Un compromesso per Angela

Alberto Brambilla

Alla cancelleria di Berlino devono avere preso gusto a giocare con le fondamenta della moneta unica. Fonti del governo prima prospettavano l’uscita della Grecia dall’Eurozona, poi smentivano in pubblico.

Roma. Alla cancelleria di Berlino devono avere preso gusto a giocare con le fondamenta della moneta unica. Fonti del governo prima prospettavano l’uscita della Grecia dall’Eurozona, poi smentivano in pubblico. Ieri la cancelliera Angela Merkel ha detto che questa “non è una settimana decisiva per l’euro”, quando invecegli operatori del mercato, i banchieri, gli economisti e la comunità finanziaria internazionale ritengono che questa sia una settimana epocale, perché giovedì 22 la Banca centrale  svelerà i termini e le modalità dell’attesissimo programma di acquisto dei titoli pubblici per contrastare l’incombente deflazione, il cosiddetto Quantitative easing. Berlino fa un gioco di velature, non certo gradito a tutti. Eppure a questo gioco di diplomazia, tra dichiarazioni pubbliche e colloqui privati, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, pare deciso a starci, da abile negoziatore qual è. Anche a costo di mettere in discussione l’indipendenza della Bce, un pilastro.

 

La scorsa settimana Draghi ha incontrato Merkel e il suo potente ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, hanno discusso certamente del Qe. Dalla stampa tedesca si apprendono i contorni e i possibili ricaschi di questo compromesso. E il risultato della trattativa privata sull’asse Berlino-Francoforte solleva diverse perlessità tra gli addetti ai lavori. Rischia di deludere, ovvero di non essere più quel bazooka che i mercati si aspettavano, come scriveva ieri sul Financial Times, Wolfgang Munchau. Ma più modestamente un intervento ripiegato sulle esigenze peculiari di alcuni paesi, sostiene Stephanie Flanders, analista di JPMorgan. Ovvero ripiegato sulle istanze della Germania secondo cui il Qe non è la risposta alla crisi europea ma, anzi, rappresenta un disincentivo per le riforme strutturali dei paesi più vulnerabili dell’Eurozona.

 

Il punto di frizione principale, stando alle indiscrezioni sul Qe filo-tedesco, riguarda chi acquisterà i titoli pubblici, fino a 550 miliardi di euro in totale. All’inizio erano trapelati due scenari. Nel primo era la Bce ad assumersi i rischi a bilancio dell’acquisto di bond di 18 paesi dell’area euro sul mercato secondario; la Grecia sembrerebbe esclusa perché non incontrerebbe i criteri necessari. Il secondo scenario, caldeggiato da ampi settori dell’opinione pubblica tedesca e trapelato in questi giorni sullo Spiegel, prevede il coinvolgimento totale delle banche centrali nazionali, che si farebbero carico degli acquisti e quindi delle possibili perdite a bilancio in caso di default a seconda della partecipazione al capitale della Bce. Le quote: Germania (18 per cento), Francia (14), Italia e Spagna (9), per altre sette nazioni (5) e per le restanti otto (1). Da ultimo è spuntata l’ipotesi di “compromesso sul compromesso”, ovvero una divisione  al cinquanta per cento del fardello tra Bce e banche nazionali.

 

“Far acquistare da ogni Banca centrale i titoli del suo paese equivarrebbe ad annunciare la fine della politica monetaria comune”, dice  su Repubblica l’economista  e direttore generale di Assonime (l’associazione che riunisce le società per azioni) Stefano Micossi. In Banca d’Italia, istituzione di conio europeista, una simile eventualità appare talmente assurda da essere vissuta come una contraddizione in termini. Il governatore Ignazio Visco ha espresso la sua contrarietà a queste formule che spostano i rischi sulle Banche centrali nazionali in un’intervista al quotidiano tedesco Welt am Sonntag a inizio gennaio, quando l’ipotesi cominciava a farsi avanti nei circoli tecnocratici europei. “Faremmo bene a mantenere le procedure che valgono per tutti i nostri interventi di politica monetaria – ovvero decisioni il più possibile collegiali – i rischi sono condivisi dall’Eurosistema nel suo insieme”, in caso contrario, ha detto il governatore, “la frammentazione finanziaria nell’area – ovvero la disfunzione che il Qe e le misure a favore del credito già intraprese dalla Bce intendono correggere – potrebbe tornare ad ampliarsi rispetto alle condizioni attuali”.

 

L’ipotesi di una divisione dei rischi a carico delle Banche centrali nazionali non sarebbe dunque ben vista in Banca d’Italia che, intanto, intravede un miglioramento del pil nel primo trimestre di quest’anno per l’economia di Roma. “Dopo tre anni di caduta quasi ininterrotta, ci sarà un piccolo aumento”, ha detto ieri il direttore generale Salvatore Rossi, ponendo come “imperativo categorico” l’uscita dalla recessione.

 

Non è però detto che le Banche nazionali incorrano in perdite certe comprando titoli pubblici. Anzi, una Banca può accollarsi il debito e tenerlo potenzialmente per un tempo infinito. Oppure, perché no, trarne profitto. Caso diverso, ma significativo, è quello della Hong Kong Monetary Authority che comprò azioni in Borsa durante la crisi asiatica di fine anni Novanta, e sei mesi dopo guadagnò rivendendoli.

 

Tuttavia il sospetto – che solo gli analisti possono permettersi di ipotizzare apertamente come speculazione teorica – è che i tedeschi intendano tenersi libera la via di fuga in caso l’euro si rompa e si debba tornare alle monete nazionali, oppure all’ipotesi di un euro a due velocità, euro-marco ed euro-sud. Così ogni stato dovrebbe sopportare il contraccolpo da solo. Un principio che per quanto teorico è comunque pericoloso perché ammette – implicitamente e in via ipotetica – la disgregazione della moneta unica o una rimodulazione delle istituzioni europee esistenti. 

 

[**Video_box_2**]“Si commetterebbe un errore gravissimo se si procedesse lasciando il fardello in capo alle Banche centrali nazionali”, dice al Foglio Angelo  De Mattia, già direttore centrale della Banca d’Italia e braccio destro dell’ex governatore Antonio Fazio. “La Bce farebbe bene a proseguire sulla strada della condivisione perché per seguire questa mediazione con i tedeschi, Draghi rischia di trasformare il Qe in qualcosa che non andrebbe a centrare le attese degli operatori. La cosa più grave poi – aggiunge De Mattia – è che quanto apprendiamo dalla stampa è frutto di colloqui privati tra Draghi e Merkel, e allora la norma dell’indipendenza della Banca centrale che fine fa?”.  Ieri la cancelliera Angela Merkel ha risposto alla domanda che in molti, come De Mattia, si pongono cercando di liquidare la questione – “la Bce decide in piena indipendenza” – e fingendo di non vedere l’elefante nella stanza.

 

L’elefante ha le sembianze di un’anomalia totale per la Bce e l’intera unione monetaria, ovvero l’ingerenza pressante degli stati nazionali su un’autorità formalmente indipendente dalle richieste peculiari dei singoli membri; anomalia che non si è mai vista nei primi dieci anni di vita della Bce. Lo spettro di un livello crescente di nazionalismi all’interno delle istituzioni tecnocratiche europee. Non si manca mai di sottolineare dalle parti dell’Ifo di Hans-Werner Sinn, che la Bce è modellata sulla Bundesbank tedesca. Argomento valido soprattutto ora che il suo governatore Jens Weidmann pare(va) messo in minoranza nelle decisioni importanti del consiglio Bce. 

 

Il popolo tedesco – cui Draghi s’è rivolto direttamente in varie interviste cercando di spiegare la natura paneuropea degli stimoli monetari, ovvero non valgono per pochi stati ma per tutti – si ritrova schierato come un sol uomo. Dall’opionione pubblica, all’industria, al settore bancario e assicurativo. Altra anomalia significativa, nitida a guardare la formazione del compromesso Draghi-Merkel, è il ruolo della stampa. I governatori del consiglio Bce vengono intervistati con frequenza sui giornali stranieri e lanciano sassi. Dai giornali tedeschi, poi, partono le ipotesi – Grexit in primis – sulla futura formazione dell’unione monetaria. Probabilmente se si dovesse chiedere conto di queste chiacchiere in libertà a un banchiere di lungo corso, troverebbe tutto questo una bestemmia.

 

Forse c’entra il fatto che la crisi globale, l’innesco della crisi del debito sovrano, ha dato un duro colpo all’incantesimo europeista e ora si torna a ragionare con il cappello della nazionale in testa. A Berlino si stanno portando avanti.

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  • Alberto Brambilla
  • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.