Frank Van den Bleeken

Quando la Morte serve ad arginare il Male. Tra eutanasia e misericordia

Eduardo Savarese

Il caso dell’eutanasia che avrebbe dovuto essere praticata il prossimo 11 gennaio all’ergastolano belga Frank Van den Bleeken, su sua richiesta, dopo aver scontato circa trent’anni di pena e che ieri i medici hanno deciso di non effettuare, ha provocato un ampio dibattito.

Il caso dell’eutanasia che avrebbe dovuto essere praticata il prossimo 11 gennaio all’ergastolano belga Frank Van den Bleeken, su sua richiesta, dopo aver scontato circa trent’anni di pena (e avendone molti altri ancora da scontare, essendo poco più che cinquantenne) e che ieri i medici hanno deciso di non effettuare, senza finora comunicarne la motivazione, ha provocato un ampio dibattito. Lo stato ha ritenuto di accogliere la richiesta e parrebbe che alcuni sacerdoti abbiano parlato di un gesto di pietà giustificato (un sacerdote avrebbe dovuto assistere il moribondo nei prossimi giorni). E’ bene premettere alcuni fondamentali dati di fatto. L’uomo in questione si è macchiato di alcuni delitti terribili: torture, stupro e omicidio di giovani donne. Nel carcere, la vita gli è resa impossibile dai compagni che lo istigano, giorno per giorno, a togliersi di mezzo. Lui, d’altra parte, affetto da disturbi psichici, avrebbe affermato di essere per sua natura incapace a non compiere quel genere di crimini. Lamentando lo stato di prostrazione psicofisica in cui versa, Frank Van den Bleeken ha chiesto allo stato di morire. L’eutanasia, si sa, in Belgio è permessa dalla legge. I familiari delle vittime si sono però opposti alla decisione dello stato di accogliere la domanda di eutanasia. E hanno indicato una soluzione differente, la stessa suggerita dai compagni di carcere: il suicidio. Questo racconto, che ho cercato di ridurre all’osso, pur nella sua asciuttezza, lascia sgomenti. Veniamo messi di fronte a molte questioni difficili, per l’etica (in generale e nell’amministrazione carceraria, in particolare), per la religione, per la giustizia penale (quanto all’efficacia della pena, e alle finalità di essa). Il fondo della vicenda, tuttavia, è legato inestricabilmente alla vera, essenziale e finale ragione dello sgomento: la morte, non accaduta, ma ricercata. E non ricercata con le proprie mani, ma attraverso le mani di altri, e di un altro che si chiama stato. L’eutanasia scinde la volontà (la determinazione della condotta) dall’esecuzione della stessa, perché i due momenti appartengono a soggetti differenti. Noi tutti sappiamo che dobbiamo morire. Di norma, però, non conosciamo il momento esatto della morte (con l’eccezione dei condannati alla pena capitale). Noi osserviamo la morte degli altri. Non osserviamo la nostra stessa morte. E’ un fenomeno che c’è, ma che sfugge (“la morte propria è l’evento divorante che strangola sul nascere ogni sapere”, con Vladimir Jankélévitch). Questo vale anche per il suicida (chi decide di morire e agisce di conseguenza) e per chi si sottopone a eutanasia. Tuttavia, credo che per questi insorga un minimo spazio di osservazione della propria morte. La morte decisa da me e realizzata per mano di altri quasi oggettiva quel fenomeno, come se non fosse più mia la morte, ma la morte di qualcun altro – che però è e resta la mia. Credo che accada qualcosa del genere, una sorta di manipolazione parziale della altrimenti assoluta inosservabilità della mia propria morte. E credo pure che sia questo aspetto a costituire l’apparenza di innaturalità dell’eutanasia che atterrisce molti e fa rivoltare il cattolicesimo.

 

La vicenda dell’ergastolano belga, tuttavia, è complicata ulteriormente dal legame tra la Morte ed il Male: la Morte serve a interrompere il Male in due sue declinazioni, il male che patisce l’ergastolano per la sua condizione carceraria e il male che segna la sua vita, la sua psiche, la sua libertà di uomo. Questo secondo male è il terribile mysterium iniquitatis che ci insegna il cristianesimo. Ma non è la Morte stessa un male, anzi il Male? Cristo risorgendo sconfigge la Morte e ci assicura la Vita. Per l’eternità. La Morte equivalente al Male, sconfitta dalla Resurrezione (per chi ci crede), non sta però nella mera interruzione biologica della singola vita, ma nel destino di tragica inutilità da cui la Creazione sarebbe altrimenti marchiata. Cristo vince l’irrisione della morte. Ma la Morte è anche “nostra sorella morte corporale”, è parte cioè di un ciclo naturale, e, nella sua terribilità, dà una misura alla nostra vita. Succede, allora, che talvolta essa vada invocata, sperata. E, anche, desiderata, avvicinata, accelerata. Essa, però, come la vita, non è mai meritata, perché sfugge a qualsiasi nostro merito o demerito. La pena capitale è per questo una forma di tracotanza collettiva. Che il singolo individuo, tuttavia, nella propria coscienza profonda, arrivi alla conclusione (non alterata, dunque, da stati psicofisici del momento) che l’interruzione della propria vita biologica sia un bene, per sé e/o per gli altri, è, al contrario, un arrendersi umile alla nostra finitezza (nonostante, in alcuni casi, l’orgoglio solo apparente di cui il gesto è rivestito), un consegnarsi, una resa incondizionata che riconosce la travalicante forza degli eventi. Questo arrendersi è spesso ulteriormente fragile: non riuscirà allora il gesto suicida. E si chiederà aiuto. Un aiuto legalizzato, nel caso dell’eutanasia, che, pur cattolico, non mi sento di giudicare moralmente e religiosamente illecito. Nel caso di Frank Van den Bleeken, la legittimità della richiesta affonda per me le radici in una piaga terribile: appunto il mysterium iniquitatis. Se essa servisse solo a sfuggire da condizioni carcerarie disumane, sarebbe una intollerabile resa dello stato, che deve evitare che la pena scontata diventi una tortura (e, quindi, una vendetta collettiva, come vorrebbero – comprensibilmente – i parenti delle vittime, ma come non può e non deve volere la società organizzata nello stato).

 

[**Video_box_2**]Ma questa eutanasia, nella misura in cui interromperebbe una vita gravata dall’impossibilità di redimersi, dalla negazione di ogni cambiamento interiore, e che si trascina nel tormento inflitto dagli altri, senza la capacità di desiderare altro da quanto già si è, rovinosamente, desiderato, serve a porre un argine al Male, al misterioso svolgersi della storia del Male nel mondo. Io credo che Frank Van den Bleeken sappia di essere preda e strumento del Male. Questa eutanasia non può essere ridotta alla facile scappatoia per evitare il carcere a vita. Essa diventa necessaria, come il suicidio di Giuda, al quale Giuseppe Berto nell’omonimo romanzo mette in bocca le parole finali: “Corro verso la mia disperazione finale. O Eterno, io grido a te da luoghi troppo profondi: Signore, non ascoltare la mia voce”. Consentire questa eutanasia non sarebbe forse ascoltare lo stesso grido? Concederla assumerebbe (avrebbe assunto, se infine il fatto in sé non avverrà), forse, una connotazione superiore alla pietà: è un atto di misericordia.

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