Mani in alto, Australia. Uno dei dipendenti del bar di Sydney fugge dall’attentatore, l’islamico Man Haron Monis, lo scorso 15-16 dicembre. Alla fine sono stati due gli ostaggi uccisi.

Candide in Australia

Mario Rimini

Lo splendido isolamento della “lucky country”, l’incursione islamista troppo difficile da accettare, il tradimento delle élite. Un punto. La follia omicida del jihad islamista in un bar che era un po’ l’icona di Sydney, un’oasi di libertà e consumismo di vista italo-australiano.

Se Candido l’Ingenuo oggi avesse un passaporto, sarebbe senz’altro blu, con l’emu e il canguro sulla copertina. La fortuna storica dell’Australia felix ha plasmato una nazione di eterni bambini, abituati a un mondo gentile e radioso, allevati in una condizione privilegiata e protetta. Un popolo immaturo e ottimista, infantile e innocuamente spavaldo. Che di fronte alla profondità ontologica e viscerale di minacce come l’integralismo islamico odierno, si ritrova vulnerabile e indifeso. E soprattutto, privo della consapevolezza di esserlo.

 

L’attentato terroristico che ha ferito il cuore di Sydney e ne ha sconvolto la dolcevita di un giorno d’estate ha rivelato una debolezza sistemica della società australiana, che ne fa il paese occidentale forse più esposto a questo pericolo letale. Due piani di analisi mettono a nudo la debolezza di una società che si crede resilient – forte e resistente – ma che è invece terribilmente impreparata per la sfida che l’integralismo jihadista rappresenta nel suo seno.

 

Il primo è pubblico. Si tratta delle reazioni delle autorità pubbliche – dal primo ministro a esponenti della politica fino ai media. Una sorta di tacita congiura della reticenza ha accomunato i rappresentanti dell’ufficialità australiana. Perché l’attentato di Sydney, a guardarlo con occhi obiettivi, è la quintessenza di un atto terroristico di matrice islamista. A dispetto della retorica ufficiale, che lo nega.

 

L’attentatore era un predicatore musulmano di origine iraniana, già noto alle autorità per un passato segnato da violenza e da un’inarrestabile attività integralista che gli era valsa una condanna giudiziaria. Il palcoscenico scelto per la rappresentazione del terrore, poi, non avrebbe potuto essere più simbolico. Martin Place è il cuore pulsante della city finanziaria di Sydney, e quindi d’Australia. Gli austeri palazzi che ne adornano la piazza ospitano le sedi principali dei più grandi istituti bancari del paese. Accanto ai simboli dell’economia, vi sono anche quelli della nostra cultura e del nostro stile di vita: gli alberghi dei turisti, cancelli indaffarati delle società aperte; gli artisti di strada e i giovani spensierati che si esibiscono in acrobazie con lo skateboard, simbolo di una vitalità giovane e libera. E infine, i caffè. Le nostre moderne agorà. Il bar della celebre azienda della cioccolata Lindt, in particolare, è un’icona cittadina. Soprattutto nel periodo natalizio. Affollatissimo e sempre popolare, è il luogo in cui indulgere nel piacere liberatorio del dolce per antonomasia, in cui discorrere in pausa pranzo con colleghi e amici, in cui darsi appuntamento per un flirt o un pomeriggio di gossip e dolcezza. E’ un’oasi di libertà e consumismo: l’occidente epicureo che si culla in una tazza di elisir antico. E’ qui che decine di avventori si sono ritrovati catapultati in un pre-medioevo a loro sconosciuto. Nel corso delle lunghe ore di prigionia, gli ostaggi sono stati costretti a pigiarsi ai vetri del locale, esponendo bandiere islamiche con iscrizioni prese dal Corano, le stesse ripetute ai quattro angoli del mondo dai terroristi jihadisti di ogni estrazione. L’attentatore ha dichiarato che si trattava di un attacco dello Stato islamico, Isis, in territorio australiano.

 

E poi, le vittime. Non può sfuggire il fatto che le vittime siano un ragazzo gay e una donna in carriera. Si può scegliere di credere al caso oppure no, ma di certo rimane il possente simbolismo di un omicidio plurimo di matrice islamista che ha spazzato via due giovani vite che di per sé rappresentano ciò che nell’islam è condannato a morte: la libertà e l’emancipazione della donna, e la condizione omosessuale.

 

Eppure, secondo il primo ministro Tony Abbott e una possente campagna mediatica, non si sarebbe trattato di un attentato terroristico, e la tragedia non avrebbe nulla a che vedere con l’estremismo islamico, o l’islam in generale. E’ stato soltanto l’atto di uno squilibrato, e niente più. “The lone wolf”, il lupo solitario, disconnesso da qualunque appartenenza ideologica o culturale. L’Australia ufficiale, insomma, ha decretato ai massimi livelli una vera e propria censura del pensiero, scegliendo di coprire una realtà palese con la retorica della fratellanza, dell’unità nazionale, della tolleranza per la fede altrui.

 

Ma la chiave di lettura definitiva dell’Australia contemporanea e delle sue chance di far fronte a una minaccia come quella dell’integralismo islamico, va cercata nelle pieghe della società.

 

L’hashtag rivelatorio, #Illridewithyou

 

L’evento più significativo è stata una campagna virtuale lanciata su Twitter e altri social network da un hashtag – uno di quegli slogan che la gioventù multimediale moderna ha trasformato in un irruento fenomeno globale: #Illridewithyou, si chiamava. Il succo era un invito agli australiani a mobilitarsi per scortare i musulmani e le musulmane del paese sui trasporti pubblici, allo scopo di proteggerli da supposte e immaginarie minacce di razzismo e discriminazione derivanti dalla reazione popolare alla matrice islamica dell’attentato.

 

Dunque con una formidabile e sconvolgente inversione di ruoli e responsabilità, la coscienza collettiva australiana ha messo da parte le vittime vere, gli australiani comuni presi prigionieri e massacrati in una giornata d’estate in un caffè del centro cittadino, e li ha sostituiti con vittime immaginarie e presunte: i musulmani del paese, reinventati prigionieri in balìa di un potenziale razzismo omicida.

 

Tale episodio racchiude la vera essenza di questo paese vulnerabile e azzoppato, preda facile e martire volontario della ferocia dell’ideologia islamista. La reazione incomprensibile della società australiana a un atto di terrore perpetrato ai suoi danni da un elemento esterno ed estraneo a cui è stato permesso di attecchire, svilupparsi e infine a gettare i semi avvelenati del proprio odio e della propria violenza di matrice religiosa ha una ragione storica, sociale e culturale ben precisa. Essa sta tutta in quell’epiteto, the lucky country, che il paese si è cucito addosso e che ne definisce la cifra esistenziale.

 

L’Australia è una nazione a sé, che esiste in una dimensione che non esiste altrove. Lucky, fortunata. Giovane ereditiera di una ricchezza immensa, quel continente-isola abitato da poche anime ma benedetto dalla natura, zeppo di minerali d’ogni sorta – dall’uranio ai diamanti, dal carbone al gas naturale – e che per una serie di radiose coincidenze è riuscito a costruire un universo parallelo di benessere e successo. La fortuna dell’Australia insomma, che oggi rischia di diventarne la condanna.

 

Sono, gli abitanti di questa terra, principalmente di due tipi. E per ragioni diverse, entrambi cadono nel tranello dell’ingenuità; inconsapevole per il primo gruppo, colpevolmente artificiale per il secondo. 

 

La maggioranza, il primo gruppo, è composta da gente semplice e senza educazione formale, dotata di una minima conoscenza del mondo, delle sue leggi e dei suoi drammi. Cowboy cresciuti in fattorie sperdute o in paesini di minatori e forestali, la cui vita è stata scandita da pochi rituali di passaggio come il primo lavoro per pagarsi le sbronze in compagnia, le avventure romantiche fino al trasferimento in città, al termine dell’adolescenza, il mutuo della prima casa e i figli. Sono il cuore spontaneo e benevolo di una nazione ricca e viziata. Questo segmento della popolazione non ha grandi mezzi per comprendere la politica internazionale, né le complesse sfaccettature delle relazioni interculturali, né tantomeno i processi tortuosi e arcaici del fanatismo religioso.

 

Sono persone che pensano che il mondo sia tutto come il vicino di casa che li invita al barbecue di Natale, o come gli amici coi quali basta una birra condivisa per sanare ogni incomprensione o dissapore. Sono il bastione dell’ideale di mateship australiano, il cemento della società che si aiuta a vicenda e che è generosa e pacifica. Il presupposto del quale, però, sono i valori etici e sociali condivisi.

 

Per loro, Bali è “l’estero” per eccellenza:  un’eterna spiaggia dove sposarsi al chiar di luna con un eclettico rito new age a piedi scalzi, o dove celebrare l’inizio delle vacanze scolastiche al ritmo di vodka e romance. E se un giorno di festa come un altro un massacro interrompe la musica, e riporta a casa le salme degli amici, l’australiano medio non ha i mezzi per afferrarne il messaggio. Piange le vittime, si commuove delle loro storie, lascia i fiori in memoriam. Come fanno le persone umili di fronte alle fatalità della vita. Ma cosa volessero dire le bombe, quello sfugge alla coscienza media del paese. 

 

Poi c’è il secondo gruppo. E’ una parte cospicua degli australiani che studiano, che viaggiano, che conoscono il mondo e non soltanto la periferia dorata in cui sono cresciuti. E’ a loro che bisogna guardare, per capire i motivi di una volontaria, colpevole rimozione collettiva.

 

Perché gli australiani un po’ acculturati soffrono di un terribile complesso. E’ un misto di atroce disprezzo per tutto ciò che definisce le loro origini e la loro identità, perché ricorda loro l’insopportabile semplicità del concittadino medio; di sofferta inferiorità per le proprie origini rurali e remote; e di parallela fascinazione cieca e ideologica per qualunque cosa possa staccarli dai primi due. In primis l’esterofilia. Molti australiani colti vivono nell’adorazione di tutto ciò che australiano non è, proporzionata a una feroce intolleranza nei confronti di ogni espressione dell’ethos nazionale. Sono plebei ricchi, che soffrono terribilmente della mancanza di nobiltà. In un paese senza aristocrazia, loro la trovano nel disprezzo di se stessi e nell’acritica ammirazione per tutto ciò che è estraneo ed esterno.

 

Gli australiani che appartengono a questo gruppo sono facili da collocare politicamente. Votano immancabilmente per la sinistra, e soprattutto per i Verdi. A queste latitudini, i Verdi sono tutt’altro che irrilevanti. Sono il terzo partito e spesso l’ago della bilancia in Parlamento. E sono lo specchio e il megafono dell’anima bella degli australiani cosmopoliti. Li troverai un giorno a una dimostrazione a favore dei matrimoni omosessuali, il giorno dopo a un rally per boicottare Israele e il sionismo, e il fine settimana a una manifestazione in difesa dei diritti degli integralisti islamici di predicare la loro ideologia senza discriminazione. Un coacervo di contraddizioni e di assoluta mancanza di saldi princìpi, se non una fede ingenua e superficiale nella pace e nell’amore universali. In essenza, un partito di hippie, diventato opinion maker e, ciò che è più inquietante, decision maker.

 

[**Video_box_2**]Il caso Pauline Hanson e l’allerta che fu

 

Un episodio della storia politica di questo paese incarna a meraviglia tale propensione della classe benpensante australiana. Nel 1997 Pauline Hanson, semi sconosciuta quisque de populo dai capelli rossi, fu proiettata d’improvviso nel gotha politico nazionale con la creazione del partito dalla vaga impronta nazionalista One Nation. Tale formazione per la prima volta dava voce a diffusi risentimenti popolari nei confronti di argomenti tabù come le agevolazioni concesse ai cittadini di origine aborigena o la crescente immigrazione dai paesi asiatici. La sua apparizione scatenò un putiferio. Ne seguì una spietata, ininterrotta caccia alle streghe di cui la Hanson fu vittima per eccellenza. Gli australiani benpensanti e i mezzi di informazione con loro si lanciarono per anni in un linciaggio personale il cui aspetto più interessante è da un lato la scontata accusa di razzismo, e dall’altro il vilipendio del personaggio fondato su elementi quali il fatto che avesse posseduto un negozio di fish & chips, o che non fosse particolarmente colta o dotata di arte oratoria brillante, o ancora che fosse stata una ragazza madre. Insomma, tutte caratteristiche che semmai ne facevano una Aussie verace – ma ritenute macchie insopportabili e fonte di infinita vergogna per la classe intellettuale che detesta i tratti tipici dell’australiano medio.      

 

E’ a queste due componenti della società australiana e ai loro diversi ma convergenti meccanismi culturali che possiamo ricondurre il successo della campagna hashtag #Illridewithyou. Così gonfiata dai media – cassa di risonanza dei benpensanti dell’Australia colta – che addirittura il presidente americano Barack Obama ne ha tessuto le lodi nei suoi commenti sulla tragedia di Martin Place.

 

E’ dunque un misto di artificiale snobismo intellettuale da un lato, e di spontanea, disarmata semplicità dall’altro, che ha prodotto il diniego collettivo di una realtà terribile e irrefutabile – il contagio dell’estremismo islamico in territorio australiano. E la ragione di tale deriva sta tutta nella crudele fortuna di questa scheggia d’occidente, perduta nelle latitudini di uno splendido e fallace isolamento. Perché, non confondiamoci, erano australiani gli ostaggi tenuti in scacco in un bar da una volontà omicida, giustificata in nome di versetti coranici. Persone comuni, che si godevano il rito del caffè e della cioccolata e si sono ritrovati ostaggio di un odio fanatico ed estraneo. Non erano islamici minacciati da un razzista bianco. E allora perché il grande pubblico australiano ha deciso di identificare il nemico invece in un presunto e ipotetico “razzista” a piede libero per danneggiare i musulmani del paese? E di negare, al tempo stesso, la matrice islamica di questo atto di terrore? Per un principio semplice, e sconvolgente, di evoluzione storica.

 

La fortuna e il benessere dell’Australia hanno prodotto una nazione incapace di vedere il mondo per ciò che è. Una nazione cresciuta in tranquilla solutidine, come quelle splendide creature che essendo vissute troppo a lungo in ecosistemi isolati e protetti, non hanno mai conosciuto predatori e minacce, e per questo hanno perduto ogni meccanismo di autodifesa. Succede così che quando un predatore viene introdotto dall’esterno nel loro contesto, non se ne rendono nemmeno conto.

 

Per una coincidenza triste e affascinante, questo è già stato il destino della fauna australiana. L’arrivo di predatori introdotti dai coloni europei ne ha causato il più alto tasso di estinzione al mondo, poiché ha trovato creature prive di difese naturali e incapaci di fiutare il pericolo. E lo stesso accade, oggi, alla società, adesso che l’islamismo intergalista è stato importato e si è impiantato nei nostri quartieri, nelle nostre strade, e che ha sostituito il vicino di casa che ci invitava al barbeque con uno che progetta la nostra estinzione.

 

Gli australiani, vuoi per umile ingenuità vuoi per studiata sofisticazione intellettualoide, non sono in grado di riconoscere la minaccia. E per una sorta di malattia auto immune, identificano invece il nemico nei pochi tra loro che hanno conservato la capacità di fiutare il pericolo, e di lanciare l’allerta. L’ostracismo nei loro confronti è feroce e spietato. Sono tacciati di razzismo, tacitati, additati come la causa della mancanza di pace sociale e del fallimento della convivenza. Così una nazione intera è privata degli anticorpi necessari a combattere l’infezione.

 

E’ questa la cifra della tragedia che a Sydney ha inghiottito due vite, e ha sputato il rospo: l’inquietante debolezza di un paese incapace di leggere la realtà, e vittima dei propri natali fortunati. Il paradosso australiano sta tutto qui. Nel fatto che al di là di ogni ragionevole dubbio, l’islam radicale è presente ed è oggi una minaccia a tutto ciò che fa dell’Australia una nazione privilegiata. E che la sua forza dirompente risiede nel suo formidabile alleato: le anime belle che l’isolamento fortunato di questo paese ha privato dell’istinto naturale di sopravvivenza.

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