Un ritratto di Molière del pittore Charles-Antoine Coypel

Tartufo culturale

Guido Vitiello

Lasciatemi, vi prego: spenderò i prossimi mesi chiuso nella mia stanza in compagnia di Molière, rileggendo il poco che ho letto e leggendo tutto il resto. I contatti con i miei simili si ridurranno a qualche mancia allungata dall’ombra ai consegnatori di pizze a domicilio.

Lasciatemi, vi prego: spenderò i prossimi mesi chiuso nella mia stanza in compagnia di Molière, rileggendo il poco che ho letto e leggendo tutto il resto. I contatti con i miei simili si ridurranno a qualche mancia allungata dall’ombra ai consegnatori di pizze a domicilio. Non che voglia scimmiottare il misantropo Alceste (“Laissez-moi, je vous prie” è la sua prima battuta), ma non vedo altra scelta dopo aver letto questa frase di Cesare Garboli: “Spesso mi chiedo che cosa ne sarebbe di tanta mitologia culturale contemporanea, se esistesse oggi un provocatore della stessa forza comica di Molière”. Dunque l’ho sempre avuta sotto gli occhi, la chiave, e mi ostinavo a cercarla per angoli bui. Era qui, in questo breve articolo del 1986 intitolato “Come ridere di Lacan?”, uno dei testi di Garboli che Carlo Cecchi ha raccolto per Adelphi in “Tartufo”.

 

Con il suo personaggio più nero, diceva Garboli, Molière ha creato un archetipo; non già dell’ipocrisia, come per lo più si ritiene, ma del potere intellettuale e spirituale quando nasce dal risentimento e dalla frustrazione. Tartufo è prete, politico e psicoanalista in un sol uomo; è il curatore d’anime, il guaritore di nevrosi e il diplomatico sopraffino; ma è anche l’attore che porta a un grado eroico la malafede congiunta all’intelligenza, l’arci-impostore che illumina suo malgrado l’impostura generale, l’incantatore di famiglie perbene che semina scandalo “nel quieto e mortale teatro di tutti i giorni”, lo spirito intimamente servile che per spadroneggiare deve richiamarsi agli interessi del Cielo. Il cielo della religione, nel Seicento di Molière; oggi il cielo della cultura e del prestigio intimidatorio che conferisce ai suoi sacerdoti. Intorno al 1968, mentre traduceva “Tartuffe”, Garboli conobbe Lacan in casa di amici e subito fiutò, dietro l’uomo, l’archetipo. Si ritrovò sotto il naso una strana varietà di Tartufo e capì che, proprio come Molière, non aveva l’obbligo di prenderlo sul serio: “Quale mutilazione può essere più orribile di quella che ci vieta di ridere di ciò che è comico?”. 

 

[**Video_box_2**]Non sono così certo che l’archetipo di cui parla Garboli sia nato con Molière, e ricordo un bel libro di Michael André Bernstein, “Bitter Carnival”, che descriveva una famiglia di personaggi tutto sommato simili a Tartufo trovandone i capostipiti già in Orazio. Ma non è questa la chiave a lungo cercata di cui dicevo. Quel che mi ha conquistato, al punto da spingermi alla clausura spontanea, è l’idea che il modello della critica della cultura possa o debba essere il teatro, e che a certi incantesimi si possa sfuggire solo immaginando di assistere a una commedia di Molière. Si perde tanto tempo e tanto ingegno a confutare delle idee, delle posizioni, quando il più delle volte basterebbe catalogare delle pose, delle posture, dei modi di occupare il palco. Un nuovo Molière potrebbe mettere in scena tutta la cabala dei moderni devoti, che giurano di servire gli interessi del Cielo della cultura (“La cabale des dévots”, per inciso, è il titolo molieriano di una splendida satira culturale di Jean-François Revel). Fossi il Re Sole, per esempio, commissionerei al commediografo una pièce sui benjaminiani d’Italia, di tutti i più cabalistici e i più devoti, superati forse solo dagli heideggeriani di provincia. Immagino poi che l’autore del “Medico per forza” si divertirebbe un mondo a satireggiare i teorici di quella strana trouvaille che ha nome “biopolitica”. E non vedo alternativa a un Molière per ritrarre in una scenetta, che so, Agamben e Toni Negri in giro per l’America Latina, intenti ad ammannire a un pubblico assorto quegli intrugli di teologia e marxismo che puzzano d’impostura tartufesca da lontano un miglio.

 

Molière non è più nei dintorni, ma scommetto che nel suo teatro c’è tutto quel che serve per osservare con gli occhi giusti il teatro della cultura di oggi. E così mi recludo. Lasciatemi, vi prego.

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