Ben Bradlee (foto LaPresse)

Il direttore

Ben Bradlee non era solo il Watergate, ma il simbolo di un establishment americano da favola. “Era un uomo con una grande capacità di concentrazione. Era uno che si interessava delle cose soltanto nella misura in cui avevano a che fare con le persone".

Nel 1969 lo psichiatra George Vaillant ha intervistato il direttore del Washington Post, Ben Bradlee, nell’ambito di quello che diventerà noto più tardi come il “Grant Study”. L’aspetto più interessante della conversazione non riguarda le risposte di Bradlee alla lunga serie di domande distribuite in diverse sessioni, quanto il cambiamento di Vaillant nel corso dell’intervista. Lo scienziato rimane impaniato nel carisma di Bradlee, avvinto dai suoi modi signorili e allo stesso tempo spicci, forse addirittura volgari ma che certamente trasmettono qualcosa di profondamente vivo. Una forma di empatia, si direbbe forse oggi. Per la fine dell’intervista il freddo interlocutore incaricato di raccogliere dati oggettivi da un gruppo di ex studenti di Harvard era diventato un caloroso ammiratore dell’uomo che aveva di fronte. Le annotazioni di Vaillant si concludono così: “Era un uomo con una grande capacità di concentrazione. Era uno che si interessava delle cose soltanto nella misura in cui avevano a che fare con le persone. Ha abbandonato il golf quando non ha più potuto giocarci con Jack Kennedy. Ciò che ammirava di più in quest’ultimo era la sua capacità di amare e la sua grazia. Alla fine dell’intervista ho sentito che il solo fatto di averlo conosciuto mi aveva dato una maggiore capacità come uomo”.

 

Hanno chiamato la sorgente di questo irresistibile fascino umano carisma, genio, charme, istinto oppure verve, hanno cercato i suoi tratti nell’eredità di una casata di “Boston Brahmin” con accento naturale (non la contraffazione dei bostoniani acquisiti), barca a vela a Cape Cod, posto prenotato a Harvard, ne hanno attribuito la crescita all’intensa frequentazione di Kennedy, al salotto washingtoniano dell’amica ed editrice Katharine Graham o alla generica appartenenza all’establishment del nord-est, ma quel tratto che avvinceva chi lo incontrava anche soltanto per pochi minuti – compresi quelli che lo odiavano, e non erano pochi – è sempre sfuggito alla classificazione. Nemmeno il grande psichiatra di Harvard ha trovato una definizione calzante, e tuttavia è rimasto ammaliato. Per questo tratto indefinibile, l’etichetta postuma di “direttore del Watergate” è inevitabilmente una reductio, benché naturalmente lo scandalo che ha trascinato Nixon nella polvere sia stato il grande highlight giornalistico della sua carriera, con la cornice cinematografica che sappiamo.

 

Bradlee è morto a 93 anni dopo aver passato quella che già nel 1995 definiva una buona vita, e certo in quel “buona” c’era tutto il senso di avventura delle scorribande notturne, l’adrenalina della newsroom, l’aria da ribaldo che assumeva quando iniziava la risposta a una lettera polemica di un lettore con “dear asshole”, caro cretino; ci sono le risate con Kennedy la sera delle temute primarie in West Virginia, quando i due si sono trovati in un cinema porno-soft e l’amico candidato non poteva fare a meno di alzarsi ogni venti minuti per telefonare a Bobby, che assisteva allo spoglio delle schede. Forse la testimonianza più intima dell’epica amicizia con Kennedy l’ha trovata qualche anno fa in un vecchio scatolone lo scrittore  Jeff Himmelman: un biglietto d’invito alla Casa Bianca per la festa di compleanno del piccolo John-John, programmata per il 26 novembre 1963. La festa non si è mai tenuta, il presidente era stato ammazzato a Dallas quattro giorni prima, lasciando l’America e gli americani un “lesser people” in una “lesser land”, come ha scritto Bradlee su Newsweek dopo la sua morte.

 

[**Video_box_2**]Una vita buona, quella di Bradlee, che era anche una bella vita, incastrata nei meccanismi dell’establishment, nei circoli della gente che conta, nella classe patrizia d’America che aveva respirato fin dai primi vagiti. Lo scrittore Michael Lewis dice che ci sono due tipi di giornalisti a Washington: gli outties e gli innies, gli outsider d’assalto e gli insider d’accesso. “Il miracolo di Bradlee è quello di essere riuscito a vendersi al pubblico come un perfetto outtie quando era esattamente un consumato innie”, ha scritto Lewis. Convivevano senza problemi in lui l’amico e protettore di Kennedy e il gran mattatore di Nixon, l’uomo delle feste danzanti con il potere e il direttore che ordina la pubblicazione dei Pentagon Papers dopo una giornata a spulciare le quattromila e rotte pagine che il New York Times aveva smesso di pubblicare dopo le minacce della Casa Bianca. Era l’editor-in-chief d’America, ha detto John Kerry. Ma forse era l’editor-in-chief del mondo in cui anche Kerry è cresciuto, il mondo delle dinastie politiche e delle vacanze a Martha’s Vineyard, delle battute fulminanti e di quel nonsoché che lasciava un’impressione indelebile.

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