Corradino Mineo con Maria Elena Boschi (foto LaPresse)

Un po' matti, bru bru e tanto paraculi. Peones a scuola da Mineo e Civati

Salvatore Merlo

Ricordate gli yesmen, i peones, l’alienazione dell’onorevole pendolare che si consegnava mani e piedi alla disciplina di partito, al capogruppo, al capocorrente, al capopartito? “La nostra battaglia si è conclusa con una sconfitta, per il momento”, soffia minaccioso Corradino Mineo, deputato del Pd che non ha votato la fiducia al governo del Pd.

Roma. Ricordate gli yesmen, i peones, l’alienazione dell’onorevole pendolare che si consegnava mani e piedi alla disciplina di partito, al capogruppo, al capocorrente, al capopartito? “La nostra battaglia si è conclusa con una sconfitta, per il momento”, soffia minaccioso Corradino Mineo, deputato del Pd che non ha votato la fiducia al governo del Pd. L’Italia del centralismo democratico, e di quello carismatico berlusconiano, ha forse vissuto in passato d’eccessi, di troppi parlamentari coristi a bocca chiusa, di forzati del voto elettronico, fedeli alla luce del sole, ma sempre pronti a una rivolta incappucciata nella confortante oscurità di un voto segreto. D’altra parte gli eccessi portano alle contorsioni, ai trucchi della morale, nel paese di Machiavelli: è infatti l’Italia, dove le minoranze tumultuose per tradizione piegavano la testa alla disciplina di partito, ad aver inventato i franchi tiratori, figure palindrome e ossimori viventi, sempre a metà tra la dimensione della libertà e il torbido cosmo dell’intrigo: nel segreto dell’urna ancora oggi affossano governi, presidenti della Repubblica, membri del Csm, giudici costituzionali, leggi e decreti. Eppure mai, mai nemmeno nell’Italia delle sintesi impossibili, nel paese in cui i treni sono lenti ma si chiamano tutti “freccia”, nel paese del partito di lotta e di governo battezzato da Berlinguer, s’era visto il deputato che sta nel Pd ma sta anche contro il Pd, che sta in maggioranza ma sta anche all’opposizione, che sta dentro ma sta fuori. Un caso clinico per il neurologo Oliver Sacks.

 

Gonfio di ribellione e di mali propositi contro il Jobs Act del suo segretario e premier Matteo Renzi, Pippo Civati risponde così al mite Lorenzo Guerini, il vicesegretario che gli faceva notare come, in effetti, “non votando la fiducia si pone qualche problema di compatibilità tra il partito e loro”. Dice dunque Civati: “Non si può avere un partito all’americana e poi immaginare che ci sia una disciplina di stampo sovietico. Non potete cacciarci”. E poco importa che in America, al Congresso, non si siano mai visti i parlamentari del Democratic party votare contro il loro presidente Obama. Gli dice infatti Roberto Giachetti, in romanesco bonario: “Ma chi te caccia? Sei tu che già te ne sei andato”. In nome dell’indipendenza di giudizio, Mineo e Civati, ce l’hanno con il loro partito. Così per Mineo “il Jobs Act è un pasticcio bocciato da Draghi”, mentre Renzi altro non è che “un ragazzino autistico che vorresti proteggere perché tante cose non le sa”.

 

[**Video_box_2**]Renato Brunetta, che ovviamente non sta nel Pd, si esprime con meno brutalità: e insomma Mineo ha un’idea del suo partito più violenta e avversaria di quella che hanno gli avversari violenti del suo partito. Non diverso è il caso di Civati, secondo cui il decreto lavoro del Pd “non va”, secondo cui “il dissenso si può esprimere anche con la fiducia”, e secondo cui, infine, ovviamente, malgrado lui sia contrario a tutto, “da qui non mi muovo”. Sia Mineo sia Civati, capipopolo della strana rivolta, rivendicano insomma il diritto di stare nel Pd e di votare contro il Pd, d’avere la tessera del partito di Renzi e negare la fiducia al governo di Renzi, e su questioni che nulla hanno a che vedere con la libertà di coscienza, con la fede, con la vita o con la morte. E dunque, malgrado le sintesi impossibili siano la storia d’Italia, qui siamo evidentemente ben più avanti anche rispetto alle convergenze parallele morotee. Dice per esempio Giachetti: “L’unico che avrebbe potuto onestamente votare contro la fiducia del governo, ma non lo ha fatto, è Walter Tocci, che ha dichiarato di volersi dimettere. In un partito, uno ci sta o non ci sta. Se ci stai, allora rispetti i rapporti di forza interni e la democrazia, anche se non sei d’accordo. Se non ci stai, se esci dal partito, ovviamente puoi fare come ti pare. Ma se invece fai come ti pare, e resti anche dentro il partito, allora è un pasticcio neuropsichiatrico. E anche una furbata”.

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.