Matteo Renzi è presidente del Consiglio dal 22 febbraio 2014 e segretario del Partito democratico dall’8 dicembre 2013 (foto Lapresse)

Cercasi avversari

Renzi e il nuovo Pd per non rimanere ostaggio del governo Whatsapp

Claudio Cerasa

I due volti della squadra, la prossima segreteria (domenica?) e cosa non funziona nei meccanismi di governo.

Roma. Questo articolo comincia con una serie di sms inviati ad alcuni esponenti della segreteria del Pd (o almeno ciò che rimane della segreteria del Pd), prosegue con alcune chiacchiere in libertà scambiate quest’estate con alcuni importanti esponenti del mondo Pd (pochi gufi, molti nemici dei rosiconi), si conclude con una notizia (riguarda domenica prossima, quando Renzi sarà alla festa dell’Unità di Bologna) e una serie di considerazioni sulla buona intervista rilasciata ieri da Renzi al Sole 24 Ore (nella quale il presidente del Consiglio ha promesso che nel 2015 la spesa pubblica sarà tagliata di venti miliardi, contro una previsione contenuta nel Def pari a 16 miliardi, e speriamo non sia solo una visione prodotta da una nuova e logorante malattia che gira dalle parti di Palazzo Chigi, la terribile “annuncite”) e ruota attorno a quella che è la domanda centrale che riguarda la vita dell’esecutivo: qual è il problema di Renzi?, e che cos’è che non funziona nel motore del governo Leopolda? Rispondere alla domanda non è semplice perché i problemi di Renzi, a parte i dati economici, l’economia che non riparte, la disoccupazione che non scende, i consumi che non rifioriscono, la crescita che non risale e il prodotto interno gufo che non la vuole sapere di rottamare quel maledetto segno meno accanto al numero zero, sono problemi che si vedono e non si vedono. Perché un presidente del Consiglio che ha una maggioranza schiacciante, un consenso mostruoso e un numero di avversari politici che per dimensioni è simile al prodotto interno lordo italiano (zero), che razza di problemi può avere se non, appunto, la diabolica congiuntura economica? C’è la questione del coraggio, certo, e nel Pd quasi tutti concordano con le parole offerte ieri al Foglio dal sindaco di Firenze Dario Nardella: “Per salvare il paese a volte bisogna andare contro vento e utilizzare il consenso non come un fine ma come un mezzo per imporre anche, se necessario, riforme impopolari”. E il resto? Il resto è contenuto in un’espressione perfetta offerta da un renziano di ferro che sintetizza qual è, in fin dei conti, il problema del presidente del Consiglio: la sindrome del governo Whatsapp. Vediamo di che si tratta.

 

[**Video_box_2**]Per governo Whatsapp si intende un concetto più o meno di questo tipo. Renzi è un leader politico che ha fatto del suo comunicare con metodi e mezzi non convenzionali un punto di forza e lo stile del presidente del Consiglio ormai è noto: rapporto diretto con l’elettore (io leader, tu follower, noi amici), lotta dura e pura contro i vecchi corpi intermedi (sindacati, corporazioni), linguaggio innovativo (e-news, tweet, conferenze stampa scoppiettanti, docce gelate, gelati, e così via) e un’idea sia del partito sia del governo chiaramente americana. E’ la famosa personalizzazione della leadership: io sono il leader, e sia il partito sia il governo devono essere quanto più possibile delle costole della mia leadership. La formula ha pagato dal punto di vista elettorale, alle ultime elezioni il Pd ha vinto anche perché la sovrapposizione tra leader e partito è stata pressoché totale (per i distratti: il Partito democratico ha preso il 40,8 per cento appena un anno dopo aver preso il 26 per cento) e il governo di Renzi oggi, a parte alcune rare eccezioni, coincide effettivamente con il nome Renzi (Renzi è contemporaneamente allenatore, difensore, centrocampista, centravanti, massaggiatore, fisioterapista, in cuor suo vorrebbe essere anche arbitro, guardalinee e quarto uomo ma per quello, via, bisogna aspettare almeno i cinquant’anni). La disintermediazione, sotto molti punti di vista, è massima sia al governo sia al partito. Renzi si trova da sei mesi al governo, e questo si sa. Ma quello che forse non si sa è che dopo sei mesi a Palazzo Chigi ancora aspettano gran parte dei decreti di diretta collaborazione (Renzi non ha ancora un ufficio stampa ufficiale, un capo di gabinetto ufficiale, un capo di segreteria ufficiale, un consigliere economico ufficiale. E il punto è che Renzi non si trova a suo agio con la definitezza dei ruoli, si trova meglio a lavorare nel caos, vedi la sua scrivania, e a essere circondato da posizioni indefinite, da persone che in teoria possono fare qualsiasi cosa, e non è raro a Palazzo Chigi venire a contatto con sottosegretari che si ritrovano svolgere il ruolo di capi di gabinetto e deputati o ex ministri che si ritrovano a svolgere il ruolo concreto di ministri ombra).

 

Mentre a Largo del Nazareno, sede del Pd, tutti ancora aspettano che sia nominata una nuova segreteria: considerando che della vecchia segreteria, cioè quell’attuale, qualcuno è andato al governo, Madia, Lotti e Boschi, qualcun altro in Europa, Mogherini, qualcun altro ancora si è candidato alle primarie, Bonaccini, e qualcun altro è finito a Strasburgo, Pina Picierno. A Palazzo Chigi, di fatto, al di là della retorica e dello spin, la disintermediazione ha prodotto una situazione di questo tipo: le decisioni più importanti Renzi le prende sempre con un gruppo snello e ristretto di persone (Lotti, Boschi, a volte Delrio, più in generale chiunque parli fiorentino che passi a Palazzo Chigi) e questo innegabile accentramento ha prodotto delle tensioni (vere) con le burocrazie degli altri ministeri (in primis il ministero delle Finanze, e se è vero che Renzi ha un ottimo rapporto con Padoan è anche vero che i burocrati di Palazzo Chigi hanno un rapporto meno buono con i capi di dipartimento del Mef); e delle discussioni (non sempre semplici) anche con i tecnici del Quirinale (a Palazzo Chigi sono molti i renziani convinti che una delle ragioni per cui Renzi non può fare tutto quello che vorrebbe fare è quel cartellino giallo mostrato spesso dal capo dello stato nei confronti dei tecnici del governo). Finora è andata grosso modo così. Nei prossimi mesi difficilmente cambierà la struttura operativa del governo, che poi è la sua spina dorsale (Re-Lo-Bo, Renzi, Lotti, Boschi). Ci potranno essere alcune nomine che magari verranno ufficializzate, certo. E anche se alcuni amici di Renzi consigliano a Renzi di accogliere nel suo cerchio ristretto anche qualche persona più esperta, anche qualcuno che non parla fiorentino, il presidente del Consiglio è convinto che, come ci ha insegnato Vujadin Boskov, squadra che vince non si cambia.

 

Più che il governo però – dove la storia delle tensioni con Graziano Delrio è vera solo a metà e riguarda, più che Renzi, il giro fiorentino di Palazzo Chigi e una dialettica quasi naturale tra renziani puri e renziani del giro Anci, tra toscani ed emiliani – oggi per il presidente del Consiglio il problema della disintermediazione riguarda più il Partito democratico che Palazzo Chigi. Massimo D’Alema è ingeneroso e anche un po’ rosicone quando dice che Renzi non ha una segreteria ma un gruppo di persone che sono fiduciarie del presidente del Consiglio. In realtà il fatto che alcuni esponenti di primo piano della segreteria del Pd siano finiti un po’ al governo e un po’ in Europa è segno che Renzi (al di là poi del giudizio che si può dare sulle singole persone) sta davvero imponendo una nuova classe dirigente. Ma il problema della segreteria del Pd, D’Alema o non D’Alema, esiste. E un leader come Renzi che dice di voler seguire alla lettera la vecchia lezione di Tony Blair (“change labour to change Britain”) sa che avere un partito solido, strutturato e ben organizzato alle spalle è il modo migliore per sostenere l’attività del governo, amplificarne la voce e farla arrivare non solo agli elettori ma anche agli iscritti del Pd. E un partito solido, strutturato e ben organizzato – ovvio – non può prescindere anche dalla sua segreteria. E la segreteria del Pd oggi non si può dire che goda di grande salute. Il cronista ha fatto un esperimento (piccolo ma significativo) e ha chiesto ad alcuni esponenti della segreteria del Pd se fossero in grado di ricordare quando è stata l’ultima volta che Renzi ha convocato al Nazareno la segreteria del Pd. Risposta numero uno: “Il 30 luglio, mi pare. Ah no scusa mi sono confusa con la direzione. Non ricordo”. Risposta numero due: “Sinceramente non ricordo”. Risposta numero tre: “Mi pare prima dell’estate”. Risposta numero quattro: “Su Whatsapp tutti i giorni, più volte al giorno, al Nazareno non mi ricordo”. L’importanza di avere una buona, robusta e organizzata segreteria (di fatto oggi tutto il lavoro sporco lo fanno Lorenzo Guerini, vicesegretario, e Luca Lotti, sottosegretario all’Editoria di Palazzo Chigi, segretario del Cipe, e anche responsabile organizzazione del partito) Matteo Renzi lo ha capito negli ultimi tempi grazie a due episodi diversi l’uno dall’altro ma ugualmente significativi. Il primo è un problema politico e da un certo punto di vista comunicativo che è stato riportato al presidente del Consiglio da alcuni esponenti del partito che hanno battuto per tutta l’estate le feste dell’Unità: la base del partito è fiduciosa, apprezza il coraggio e il movimentismo del premier ma su molti temi la classe dirigente locale non ha ancora cambiato verso, in un certo senso non è ancora stata “educata”, e spesso si avverte uno scollamento profondo e potenzialmente pericoloso tra il pensiero del segretario e quello dei vertici territoriali. Il secondo punto è invece organizzativo ed è quello che ha convinto Renzi ad accelerare sulla partita della nomina della nuova segreteria (lo farà domenica a Bologna, alla festa dell’Unità).

 

Gli episodi sono questi e riguardano entrambi due elezioni regionali in cui il Partito democratico, finora, non ha dato una buona prova di organizzazione e coordinamento. Il caso più noto è quello dell’Emilia Romagna: Renzi, dopo le dimissioni di Vasco Errani, avrebbe voluto puntare su un candidato unitario (il bersaniano Daniele Manca, vista l’indisponibilità di Graziano Delrio) e alla fine si è ritrovato con due renziani (Richetti e Bonaccini) che hanno scelto di sfidarsi tra loro per scrivere il dopo Errani. Sia Richetti sia Bonaccini sono due nomi che hanno ottime possibilità di conquistare l’Emilia Romagna ma il fatto che il partito nazionale sia saltato in modo così vistoso ha fatto capire a Renzi che per gestire un grande partito, in una fase complicata e movimentata come questa, rischia di non essere sufficiente Whatsapp (e un partito sfilacciato, metti caso che poi le elezioni non dovessero essere così lontane nel tempo, anche a livello nazionale, non è certo una buona base di partenza per provare a smacchiare agevolmente il giaguaro). Il secondo episodio riguarda invece la Calabria, e qui la storia è più intricata. In Calabria il Pd sta scegliendo il suo candidato per le prossime regionali e anche qui Renzi avrebbe preferito una candidatura unitaria. Mentre la segreteria del Pd ragionava sul nome di un candidato possibile (sogno: Nicola Gratteri), si candida un pezzo grosso dell’area ex Ds: Mario Oliverio. Caos. I renziani, che pur non essendo una corrente accidentalmente a volte si muovono come una corrente, decidono in una riunione romana di contrapporre un altro candidato: Gianluca Callipo, trentenne, sindaco di Pizzo Calabro. Passano alcuni giorni e il braccio destro di Renzi, Luca Lotti, scende in Calabria anche con l’idea di verificare se esista o no la possibilità di individuare un candidato unitario. Alcuni giornali locali dicono che Lotti avrebbe sondato il magistrato Salvatore Di Landro (notizia smentita) ma il punto vero è che il mondo renziano ha capito che il candidato renziano (Callipo) non è così forte come si era pensato. Ancora caos. Passano altri giorni e il vicesegretario del Pd, Lorenzo Guerini, tornato dalle vacanze, dice che le primarie si devono fare, e così sarà. Non proprio uno svolgimento lineare; e anche la vicenda calabrese ha fatto capire a Renzi che il partito va più che rafforzato.

 

“Il modello disintermediato – dice al Foglio un renziano di peso – funziona quando tutto va bene e quando la stella del leader brilla senza intermittenza. Quando però la stella, per forza di cose, si trova immersa in una serie di piccole tempeste solari, la disintermediazione mostra i suoi lati più fragili, e anche le stelle a quel punto non possono che chiedere una mano”. La lezione insomma che Renzi dovrebbe aver compreso da quest’estate è che imporre una linea al suo gruppo parlamentare non è così facile come imporre una linea culturale ai dirigenti del suo partito. E non avere una segreteria forte significa anche – a sinistra funziona così – non avere un numero sufficiente di persone in grado di far cambiare verso ai gruppi dirigenti territoriali (e come insegna Blair non si cambia il paese se prima non si cambia radicalmente il proprio partito).

 

La formula agile e sbarazzina del governo Whatsapp – governo diretto e senza intermediazioni – è vincente perché offre a Renzi la possibilità di mostrare con agilità la sua arma migliore, che è quella di essere l’unico leader davvero contemporaneo, tratto culturale che permette al leader Pd di essere in sintonia naturale con una grossa fetta di elettorato (“Le egemonie – scriveva il filosofo ceco Vaclav Belohradsky, di cui abbiamo già accennato qualche mese fa su questo giornale – si svuotano quando cessano di essere attuali e solitamente diventa portatore di un’egemonia alternativa quel gruppo che riesce a rappresentare l’attualità, a convincere gli elettori di saper governare la minacciosa differenza tra il passato e il futuro che costringe la maggioranza dei cittadini a ridefinire i loro progetti di vita”).

 

Ma oggi che il governo, per difendersi dalle tempeste solari, è costretto a muoversi controvento, a ragionare su misure impopolari, a sfidare i sondaggi, a utilizzare il consenso come un mezzo e non come un fine; oggi che il governo Renzi dovrà sfidare le minoranze conservatrici che tengono da anni in ostaggio la sinistra (e dunque il paese); oggi che i ragazzi della Leopolda dovranno tagliare venti miliardi di euro all’anno, abolire di fatto l’articolo 18, riscrivere le regole del mercato del lavoro, riformare la giustizia, togliere a giudici e pm molti di quei mostruosi poteri che da troppo tempo hanno reso discrezionale l’attività della magistratura; oggi che i nemici del governo si sono sciolti come neve al sole (ah, quanto farebbe comodo oggi una fabbrica di Corradino Mineo); oggi che i più temibili avversari interni del Pd sono impegnati in una complicata gara per la sopravvivenza sui giornali anche a costo di esporsi a figure un po’ così (l’atto politico più significativo della minoranza bersaniana del Pd è stato quello di presentare una proposta di legge per abolire una norma, quella del pareggio di bilancio in Costituzione, introdotta due anni fa con un ddl firmato da Bersani: deliziosi); oggi che il governo dovrà insomma muoversi controvento, avere un partito gestito non solo con una chat sull’iPhone per Renzi potrebbe essere il modo migliore per fare quello che promette di fare da mesi: cambiare il Pd per poter davvero cambiare il paese.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.