Claudio Lotito sul treno che ha portato la Lazio a Milano per la sfida con il Milan (foto LaPresse)

Il debutto da incubo di Lotito

Sandro Bocchio

Era stata la sua estate, l'estate di Claudio Lotito. Giorni frenetici seguiti al clamoroso flop mondiale, giorni in cui il presidente della Lazio era emerso come pilota inaspettato e malsopportato del calcio italiano. Ma il pallone, si sa, è una brutta bestia: occorre fare i conti con i risultati, pur se Lotito era arciconvinto che questi sarebbero arrivati. Aveva forse perso di vista la Lazio mentre armeggiava per la Figc.

Era stata la sua estate, l'estate di Claudio Lotito. Giorni frenetici seguiti al clamoroso flop mondiale, giorni in cui il presidente della Lazio era emerso come pilota inaspettato e malsopportato del calcio italiano. Lo vedevi cucire alleanze, intessere rapporti, rafforzare amicizie per condurre Carlo Tavecchio alla presidenza federale al posto del dimissionario Guancarlo Abete. Il tutto in consolidata diarchia con Adriano Galliani, leader del cartello che già controlla la Lega Calcio, l'asse che inserisce la Juventus nel (per lei insolito) ruolo di sconfitta, insieme con i compagni di viaggio del momento. Un'estate che ha svelato come il pallone italiano sia rimasto l'unico vero erede dei congressi democristiani che furono, palcoscenico per leader immutabili e retrobottega per coltellate alle spalle dell'amico. Non avrebbe potuto esserci liturgia differente, visto che Tavecchio appartenne a quel mondo come sindaco scudocrociato di Ponte Lambro in Alta Brianza: primo cittadino per quasi vent'anni, come per quindici buoni lo è stato della Lega Dilettanti, il serbatoio da cui ha attinto per costruire la corsa vincente alla poltrona più importante.

 

Una corsa in cui avrebbe potuto comunque scivolare per atteggiamenti da piccolo padrone del vapore, con parole in libertà, venate di sprezzo e razzismo. Frasi che in qualche modo avrebbero potuto rallentarlo fino a fermarlo, complice un (presunto) movimento di opinione contrario a un dirigente ritenuto inadeguato. Lo definivano espressione del passato, non soltanto per questioni anagrafiche, in un periodo in cui va forte la rottamazione. Ed è qui che è entrato in gioco Lotito, con i suoi innumerevoli telefonini e con il suo ingombrante presenzialismo. Lo hai visto prendere sottobraccio un confuso Tavecchio quasi per imbeccarlo nelle occasioni pubbliche. Lo hai visto presente alle riunioni delle Leghe chiamate al voto, sfruttando ogni spiraglio a norma di regolamento per giustificare la propria faccia tra il pubblico: da proprietario della Salernitana a quella di Lega Pro, in qualità di consigliere federale a quella della serie B, come presidente della Lazio a quella di serie A. Lotito era sempre pronto a tenere compatte le componenti di cui era sicuro e a blandire chi invece era tentato di passare al campo opposto, quello del poco sopportato Demetrio Albertini, oppure invocava la nomina dell'aborrito commissario da parte del Coni. Un lavoro correntizio in perfetto stile democristiano, per l'appunto, fino al trionfo finale, fino all'elezione di Tavecchio. E poco importava che questo presenzialismo non avesse condotto a prebende personali nella nuova Federcalcio: nominati vicepresidenti il fedele Maurizio Beretta (presidente della Lega di serie A) e l'alleato Mario Macalli (gran capo della Lega Pro, non a caso favorevole alla multiproprietà delle società di calcio in Italia) si sentiva – e si sente – il padrone presente e futuro.

 

Ma il pallone, si sa, è una brutta bestia: occorre fare i conti con i risultati, pur se Lotito era arciconvinto che questi sarebbero arrivati. Aveva forse perso di vista la Lazio mentre armeggiava per la Figc, distraendosi fino a farsi sfilare Astori dalla Roma per poi dover dolorosamente spendere 8 milioni e mezzo per il rimpiazzo De Vrij. Alla vigilia del campionato si era però lasciato andare nei confronti di una tifoseria sempre più maldisposta nei suoi confronti: "Mi auguro che vengano riconosciuti i miei sforzi: avevo dato la mia parola che avrei costruito una grande squadra e così è stato". E' bastato però il Milan low cost dei prestiti per mandare all'aria parole bellicose, con El Shaarawy a umiliare sul tempo in velocità proprio De Vrij sull'1-0 e con Diego Lopez a parare il rigore di Candreva, negando la possibile riapertura in extremis della partita. Lotito guardava impietrito in tribuna – a fianco del fedele ds Igli Tare – il dissolversi di quello che era stato l'investimento più cospicuo (De Vrij) e l'erroraccio di quello che era stato il gioiello conservato nella cassaforte di famiglia (Candreva). E, con loro due, il naufragio della Lazio tutta, cui si univa – a 800 chilometri di distanza – quello della Salernitana, fermata in casa sul pareggio da un avversario (il Cosenza) ridotto in dieci e umiliata dai fischi dei tifosi. Due debutti da incubo, ma meno male che (almeno) Tavecchio c'è.

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