Un operatore di Borsa a Wall Street (Foto Ap)

La politica è perdente (e inefficace) se dimentica il ruolo dell'Ottimismo

Seth Lipsky

Una cosa occorre ricordare a proposito del velo di angoscia che ha avvolto gli Stati Uniti: e cioè quanto rapidamente le cose possano cambiare, anche in maniera radicale.

Una cosa occorre ricordare a proposito del velo di angoscia che ha avvolto il nostro paese: e cioè quanto rapidamente le cose possano cambiare, anche in maniera radicale. Saremo pure in ritirata dal pianeta, con scontri in corso sulle strade del nostro Missouri e con un’economia che a malapena ha ingranato la seconda. Con le politiche giuste, con la giusta leadership, tutto si può superare. Tutto può essere rivoltato di 180 gradi, e anche velocemente: la mia opinione è che di questo non si parli in maniera sufficientemente esplicita. Mi piacciono Rick Perry, Rand Paul, Ted Cruz, Mitt Romney e Marco Rubio (che aspirano alla candidatura repubblicana per la Casa Bianca, ndr). Tuttavia nessuno dei concorrenti del Grand Old Party (Gop) afferra un punto semplice: che possiamo rialzarci rapidamente, dopo questa caduta.

 

Chi ha espresso al meglio quest’idea, a mia memoria, è stato Robert Bartley (m. 2003) – responsabile della pagina degli editoriali del Wall Street Journal, il commentatore più vicino alla Reagan Revolution – nel suo discorso di commiato. Bartley tenne un discorso, a New York, nel novembre 2002. Assalito dal cancro, aveva deciso di dimettersi dal ruolo che ricopriva nel più grande giornale degli Stati Uniti. Dopo 30 anni in quella posizione, il Wall Street Journal organizzò per lui un banchetto all’Hotel St. Regis. L’ex governatore della Federal reserve, Paul Volcker, era presente, così come l’eroina della Guerra fredda Midge Decter. Margaret Thatcher inviò un messaggio personale.

 

Durante uno dei brindisi di quella sera, Henry Kissinger riconobbe che Bartley aveva avuto ragione a prendere una posizione più intransigente di quella del presidente Richard Nixon nei confronti dell’Unione sovietica. Jack Kemp, invece, brindò alla leadership dimostrata da Bartley alla testa del movimento che si era battuto per il taglio delle tasse. Theodore Olson, che aveva vinto la causa Bush v. Gore aprendo definitivamente a George W. Bush la strada per la Casa Bianca, sottolineò poi l’impegno di Bartley per la Costituzione.

 

Dopodiché il giornalista si alzò in piedi per il suo discorso. L’odore acre dell’11 settembre incombeva ancora su Manhattan. La nostra strategia per la guerra non era stata ancora concepita nella sua pienezza. L’atmosfera, insomma, era sinistra. A fronte di tutto ciò, il discorso di Bartley risuonò come una nota di allegria. Disse che non voleva sentir parlare dei “bei tempi che furono” – visto che i nostri guai erano nulla rispetto a quello che avevamo fronteggiato negli anni 70. Si riferiva alla sconfitta in Vietnam, all’espansionismo sovietico, al collasso del sistema monetario aureo, alla crescita dell’inflazione, alla stagnazione economica, all’embargo sul petrolio da parte dei paesi arabi, alla guerra in medio oriente e alla disoccupazione galoppante. “Il mio messaggio, oggi – esordì – è che le cose potrebbero andare peggio. In effetti, sono andate peggio”. L’ottimismo, disse, paga. “Nelle vicende umane, nessun problema è mai risolto per sempre”. Era favorevole all’applicazione di politiche ortodosse, nutriva fiducia nel fatto che la libertà economica e quella politica avrebbero trionfato. Il punto non è che oggi mancano editorialisti della stoffa di Bartley, anche perché i giornalisti che lui ha cresciuto sono oggi sparsi nelle redazioni del paese. Il punto è quello di sottolineare il suo assoluto ottimismo. E anche quello del presidente che lui aveva sostenuto, Ronald Reagan, che non a caso aveva fatto campagna sulla base dello slogan “morning in America”, “è mattina in America”.

 

Questo è l’elemento mancante nella politica odierna. Nel 2008, il presidente Barack Obama promise “speranza e cambiamento”. Ma il presidente democratico difettava di una panoplia di scelte e misure politiche coerenti con quella promessa. Oggi il Gop ha pronte queste misure, ma la chiave è agguantare l’ottimismo. Il candidato che lo farà – e che terrà a mente l’idea che si può invertire direzione in maniera repentina – sarà quello che riuscirà a emergere dalla mischia dei Repubblicani.

 

Bartley prese posizione innanzitutto su due grandi temi. Il primo fu lo sviluppo della potenza militare americana per raggiungere i sovietici. L’altro fu la crescita economica. Reagan divenne presidente all’indomani di una recessione (nel 1980) e alla vigilia di un’altra recessione (nel 1982). Durante la seconda caduta dell’economia, il tasso di disoccupazione salì al 10,8 per cento e a livelli molto più elevati in alcune parti del paese. Ma una volta che i tagli alle tasse furono attuati, l’economia si riprese, eccome se si riprese! Alla Fed, nel frattempo, Volcker annichilì l’inflazione spingendo i tassi d’interesse sopra il 20 per cento. Risultato: il valore del dollaro rispetto all’oro, sotto Reagan, schizzò verso l’alto.

 

Le persone cominciarono a sentirsi più ricche. Presto ci avvicinammo all’obiettivo della piena occupazione. Tempo nove anni dal giuramento di Reagan, e l’Unione sovietica non c’era più. Sotto la presidenza Obama, il dollaro ha perso un terzo del suo valore (come dimostra l’andamento in rapporto all’oro). Nessuno si meravigli, dunque, se le persone adesso si sentono più povere. Il tasso di disoccupazione è ancora sopra il 6 per cento, e anche più alto se si tiene conto delle persone che hanno smesso di cercare un lavoro. Però io continuo a pensare a quella che era l’idea fissa di Bartley: quanto velocemente le cose cambiarono in passato, una volta che le politiche corrette erano state messe in campo. Trovate il candidato che possa dare voce a questo tipo di ottimismo, e quello sarà il candidato in possesso della formula vincente.

 

L’articolo è tratto dal New York Sun,
dal 2008 solo in versione online,
di cui Lipsky è stato fondatore
(Traduzione di Marco Valerio Lo Prete)