La Kentucky Wildcats è la squadra di college basket che rappresenta l’Università del Kentucky. Sono il team con il più alto numero di vittorie e la maggior percentuale di vittorie del campionato

I confessori

Stefano Pistolini

Il basket è come una guerra, ma gli allenatori delle squadre universitarie sono i guardiani della migliore crescita possibile. John Calipari da quattro anni allena la squadra di pallacanestro dell’ateneo che domina questo sport, la Kentucky University

Se vi piace il basket universitario quanto piace a me, comprenderete l’ammirazione che nutro per John Calipari e per la sua idea di leadership. Nessuno più di lui conosce il significato di una vittoria. Ma in questo suo libro John ci parla d’altro: di come indirizzare i giovani verso una vita migliore e di come convincerli a essere, a loro volta, esempio per chi arriva dopo”, scrive Bill Clinton nelle note laudatorie di “Players First!” (Penguin Press), “Prima di tutto i giocatori!”, ultimo saggio del uber-coach del basket universitario Usa, John Calipari. Che conferma la tendenza secondo cui libri di questo genere si trasformano in fenomeni commerciali, affermando il genere “prontuario psicologico” che, a quell’America pragmatica e ottimista incarnata da un Bill Clinton, appaiono letture utili e propedeutiche alla propria inesauribile voglia di successo.

 

John Calipari da quattro anni allena la squadra di pallacanestro dell’ateneo che domina questo sport, la Kentucky University, ossessione d’un intero stato e faro dello sport amatoriale americano, ossia appena prima che entrino in gioco i dollari e le motivazioni del professionismo. La squadra di Kentucky gioca in un’arena da 30 mila spettatori sempre esaurita, i suoi fan hanno dagli 1 agli 80 anni e sono pronti a sobbarcarsi centinaia di chilometri per assistere a una partita. Soprattutto, quella di Kentucky University – come nel caso di altre istituzioni dello stesso livello agonistico (North Carolina, Duke, Ucla, Kansas, Michigan) – non è una squadra i cui atleti sono studenti effettivamente impegnati in un corso di laurea. I giocatori selezionati  per far parte di queste rappresentative sono piuttosto i futuri professionisti, in transito per il college giusto il tempo di raggiungere l’età minima per il loro ingresso nella Lega pro. Ciclicamente negli Usa vengono contestati i criteri di ammissione di questi ragazzi, accettati dagli atenei solo per il loro valore sportivo, sebbene culturalmente non raggiungano certo gli standard richiesti. C’è chi è pronto a testimoniare che nessuno di costoro frequenti una lezione, nel corso della loro breve permanenza all’università – che di solito non va oltre i sei mesi di un singolo campionato. Sono di passaggio, nell’anticamera della spropositata ricchezza che presto (non tutti, ma molti tra loro) si vedranno rovesciare addosso.

 

Per gli altri, esisteranno comunque forme alternative di sussistenza come, ad esempio, venire a giocare in Europa. Alla Kentucky University solo una percentuale trascurabile, diciamo il 30 per cento, l’anno successivo si metterà nuovamente a disposizione di coach Calipari per la nuova annata sportiva. Ecco allora che la figura dell’allenatore di questi campioni in erba e con la testa altrove, assume contorni particolari. Lui è l’ultimo istruttore, l’ultimo maestro – di vita, prima che di gioco – di atleti eccezionali, che sono poco più che ragazzini, muscolari ma inesperti, in procinto di affrontare un mondo complesso come quello professionistico. Calipari non è là per caso, con in tasca il suo contratto milionario. Deve vincere, mantenere intatto, e se possibile amplificare, il prestigio sportivo della grande scuola che lo ha assoldato allo scopo di accrescere i sontuosi contratti televisivi per la trasmissione delle partite della squadra.

 

E’ lì per portare a compimento la sua missione alla testa di un gruppo di ragazzi che farà a malapena a tempo a conoscere, prima che s’involino verso le agognate prebende del professionismo. La sua, dunque, dovrebbe essere, prima di tutto, un’operazione tattica: sfruttare, rapidamente e al meglio, il talento a sua disposizione e poi passare alla stagione successiva. Ma, come racconta nel suo libro, il procedimento, visto così, è troppo semplice, meccanico, impersonale. Questione di orgoglio. La coscienza d’essere al soldo di quella che, alla fin fine, è un’istituzione educativa, sebbene trasformata in una macchina di spettacolo gli impedisce di impersonare il cinismo di fondo di questa vicenda. A lui il ruolo del traghettatore non basta: nel suo incarico percepisce dei rimandi che risalgono su per la tradizione educativa americana, dove all’istruttore atletico andavano mansioni di formazione pari a quelle dei principali docenti. E per quanto il mondo oggi sia cambiato, per quanto conti solo ciò che produce share, Calipari, come altri suoi colleghi, non resiste al richiamo etico contenuto nel suo mandato di coach. Giocare, ottimizzare, vincere – d’accordo: ma anche educare. Non smettere di valutare, di distinguere e di relazionarsi individualmente con quei caratteri particolari, appartenenti a ragazzi eccellenti atleticamente, ma carenti nella maturazione intellettuale. In sostanza, si tratta anche di formare degli uomini. E di dare l’esempio a migliaia di ragazzi in giro per la nazione.

 

Si tratta di aggiornare la regola del rapporto educatore-discepolo, facendola convivere con l’intensità del grande comunicatore, ruolo a cui un personaggio su un simile piedistallo non può sottrarsi. Nel complesso un impegno straordinario, che facilmente, a posteriori, assume un formato narrativo. E libri così, nell’America d’oggi, hanno un’eco che va oltre i confini dello sport, sistemandosi nel frequentatissimo reparto dell’“how to”, tra psicologia di massa ed educazione allo sviluppo. Il loro richiamo conta sulla radicata convinzione del pubblico d’oltreoceano, che ciò che vale su un campo di gioco, vale in ambiti diversissimi del contemporaneo. A cominciare dall’idea di Calipari di porre al centro della propria filosofia il singolo giocatore e l’analisi delle strade da percorrere per ottenere il meglio da lui, nel contempo incoraggiandolo a coagire coi compagni. Per riuscirci, sostiene Calipari in “Players First!”, bisogna conquistare l’assoluta fiducia dei ragazzi, nella sua onestà e nella sua capacità di mantenere le promesse. Il tempo che ha a disposizione è pochissimo: Calipari è tra coloro che si sono battuti affinché il passaggio degli atleti dal college al professionismo fosse fissato su un termine minimo di due anni, ma l’Nba ha fatto orecchie da mercante. Perciò coloro con cui si relaziona, sono dei diciottenni usciti da scuole superiori dove venivano trattati come piccole divinità, visti i risultati agonistici che garantivano. Quasi nessuno tra loro è consapevole della propria immaturità e dei rischi connessi. E’ qui che Calipari vuole agire, con precisione e intensità, come un chirurgo. L’allenatore si tramuta in psicologo e confessore. Nell’emozionante resoconto che Calipari fa della sua esperienza e dei mille episodi che la costellano, non affiorano tecniche segrete, se non una totale dedizione e la maniacale concentrazione nello studiare la configurazione psicologica e i punti deboli di ciascuno dei suoi atleti, interrogandosi senza posa sulle motivazioni delle sue scelte e delle sue rinunce. Soprattutto, coltivando la capacità di ascoltarli. E di parlare a ogni suo giovane interlocutore, una lingua sempre sincera, chiara e coinvolgente.

 

Quando è tempo di campionati, il principale antagonista di coach “Cal” è uno strano personaggio che allena a pochi chilometri da lui, nello stesso stato del Kentucky, ma in una diversa città. Si chiama Rick Pitino, evidenti origini italiane, guru di Louisville, uno dei pochi college capaci di mettere in discussione l’egemonia dei Wildcats di Kentucky. Anche lui è molto di più di un semplice stratega del basket. E’ un leader carismatico, un capopopolo, un formidabile dandy capace di guidare la squadra indossando un doppiopetto bianco. Ed è, a sua volta, l’autore di celebri tomi che gli americani trovano nello stesso scaffale di “Players First!”. L’ultimo che ha scritto e spedito in vetta alle classifiche di vendita, s’intitola “The One Day Contract” (Macmillan), titolo che lascia poco all’immaginazione, quanto all’intenzione motivazionale che l’ha generato (il precedente, arrivato al numero 1 delle vendite, si chiamava “Il Successo è una Scelta”). Rick Pitino è un tipo di strabordante passionalità che, non solo per l’assonanza del cognome, fa pensare a un Al Pacino (magari quello di “Ogni maledetta domenica”) trapiantato sul campo da basket.  Nel suo nuovo saggio propone – a giocatori e non giocatori – di stendere ogni giorno un nuovo contratto con noi stessi, per poter correre gioiosamente sulla strada del successo. E’ così facendo, ovvero ponendosi ogni giorno degli obiettivi da raggiungere, che lui è arrivato a vincere il titolo nazionale, eccellendo tra 300 università, e valorizzando ogni allenamento, ogni riunione, ogni chiacchierata coi ragazzi. Ogni giorno conta e solo in questo modo si supereranno le avversità, imparando l’arte della focalizzazione e della pianificazione. Stendere un programma quotidiano e rispettarlo, dando spazio all’umiltà, anziché all’ambizione. Dare valore a ogni singolo istante, a ogni azione, a ogni relazione. “Il mio maggiore rimpianto è non aver imparato prima il significato dell’umiltà”, racconta Pitino.

 

Un ragionamento a parte meriterebbe l’effetto che oggi fa il sentir risuonare fiammeggianti prediche di questo genere, tutte tese al conseguimento dei traguardi, da uno scenario lontano come il nostro, italiano, dove le disillusioni sono all’ordine del giorno.

 

Una specie di anti-globalizzazione dei consumi culturali, de facto. Ma è un altro discorso. In ogni caso, questi sono messaggi positivi, corretti, condivisibili. Ma anche generici, approssimativi, se messi in relazione con le complessità di una psicologia e le incognite di un percorso di vita. Allora perché, negli Stati Uniti, questi personaggi, anche lontano da un campo da pallacanestro, acquisiscono un tale prestigio, ben oltre lo sport, coinvolgendo la dimensione esistenziale dei lettori, toccando le corde emotive e i bisogni di un pubblico spesso ben più adulto, dei ragazzi indottrinati da Calipari e Pitino? La parola chiave è: ispirazione. Il momento magico di un’esistenza, il turning point, per gli americani, in particolare della middle class,  coincide con gli anni dell’educazione universitaria. La ricerca di un simulacro di contatto con quella golden age (eternamente santificata da film, libri e memorabilia) non lascia mai l’immaginario dell’americano medio. Ecco che si delinea la perfetta piattaforma per l’elevazione di personaggi di questo genere al ruolo di santoni. Sono i buoni maestri, l’élite della struttura educativa, coloro che sanno coniugare il corpo e la mente e guidano con mano sicura i migliori talenti del paese, maneggiando la materia prima nazionale: vincere, eccellere. Sono i guardiani della migliore crescita augurabile. Non c’è da stupirsi che provino la tentazione di trasformarsi in maître à penser della “buona vita”. E che i loro libri diventino i nuovi manuali per la ricerca della felicità.

 

In cima alla gerarchia di questi guru del contemporaneo, siede il più venerato dei coach della pallacanestro moderna, l’uomo che rese possibili le parabole di Michael Jordan e di Kobe Bryant e che ha vinto indifferentemente a Chicago e a Los Angeles, che ha collezionato undici anelli da campione della Lega professionistica e che, guarda caso, a dispetto di una faraonica ricchezza, non resiste al vezzo di sentirsi anche lui scrittore, somministrando nei suoi libri la propria esperienza e il suo metodo per arrivare primi. Si chiama Phil Jackson e da pochi mesi ha rinunciato alla pensione per rimettersi in gioco e risollevare la derelitta franchigia di New York City, gli scalcinati Knicks. Nel contempo non abdica dal suo scranno di filosofo laureato della società sportiva Usa e di ciò che la circonda con passione, che poi altro non sarebbe che l’America intera. Anche per Jackson la pallacanestro è un mezzo, non un fine. Non a caso, è soprannominato il “maestro zen” e il cuore del suo messaggio giustifica l’etichetta: ciascuno – sia un giocatore di basket o un uomo nel corso della sua missione esistenziale – deve “risvegliarsi”, entrare in contatto con la natura più profonda di ciò che persegue, deve scansare le tentazioni dell’ego, dominare le paure e le insicurezze, deve rinunciare all’avidità e cercare sempre la propria autentica vocazione, senza stancarsi mai.

 

La vicenda personale di Jackson è la fonte dei principi di cui oggi si diletta a scrivere. Figlio di un predicatore del North Dakota, Phil è stato un buon atleta in gioventù, ma soprattutto un uomo eccezionale per come ha saputo reinventarsi nel corso delle stagioni della sua vita, coniugando l’amore per lo sport coi suoi interessi più profondi, a cominciare dalla filosofia degli Indiani d’America e dalle tecniche di meditazione orientale. Questa miscela d’ingredienti ha generato una personaltà unica e un carisma ineguagliato. Per lui, partecipare al più competitivo dei campionati al mondo, è prima di tutto una questione di empatia, di espressione della libertà creativa di ciascuno dei suoi giocatori, di autenticità e fede nelle proprie capacità.

 

E’ su queste basi che ha allenato i suoi campioni, trasformandoli in macchine per le vittorie. Ne parla in termini suggestivi in “Eleven Rings” (Penguin Press), raccontando come il privare Michael Jordan del suo egoismo sia stato il punto di partenza della catena di successi dei Chicago Bulls e come trasformare quel teenager viziato di Kobe Bryant nel più altero dei leader abbia fatto dei Los Angeles Lakers i dominatori del torneo per anni. A dispetto del sottotitolo convenzionale (“The Soul Of Success”), il libro di Jackson ha una profondità diversa, rispetto all’intento apertamente motivazionale di Calipari e Pitino.  “Liu Bang, l’imperatore che unificò la Cina, sarebbe stato un fantastico allenatore”, scrive Jackson, introducendo la sua visione: il basket, come ogni altro grande sport, si tratti del football o degli scacchi, è la descrizione di una guerra, combattuta in attacco e difesa. Per penetrare la sua essenza, vanno utilizzate tante chiavi diverse. Che, nel suo caso, vanno dalla musica di Thelonious Monk e dei Grateful Dead ai “Principi di Psicologia” di William James, dalle teorie del comportamento di Abraham Maslow a una lettura funzionale dell’“Oblomov” di Goncarov, fino agli insegnamenti dei testi sacri di tante diverse religioni.

 

 

Nel mondo di Jackson, lo sport, il basket, una partita, diventa una rappresentazione umana dagli evidenti riferimenti cosmici. Si gioca nel modo che ci siamo preparati e predisposti a fare, dal punto di vista fisico, ma soprattutto da quello mentale. La visione, il disegno, l’armonia, per lui sono tutto. Contrariamente a Calipari e a Pitino, che chiudono i loro volumi con sermoni sull’assoluta dedizione, Jackson conclude migrando in un territorio diverso, più affascinante: “Alla fine il successo andrà dove deve andare” scrive. Anche se poi, americanamente, aggiunge: “Se interpreti la partita nel modo giusto, i giocatori capiranno. E a quel punto la vittoria sarà la più logica delle conclusioni”.

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