Essere Berlusconi non è reato

Redazione

Girotondo femminile intorno a un pornoprocesso fallito. Chirico, Bacchiddu, Annuniziata, Tiliacos, Di Pietro, Dominijanni, Fizzotti, Giacomotti.

Puttaneggiare non è reato, Milano non è Kabul
Cazzo, lo hanno assolto. C’è un giudice a Milano. E quel giudice in quaranta secondi polverizza il pornoprocesso con una parola: assolto. Da entrambe le accuse, con formula piena. Quanto alla concussione il fatto non sussiste. Se v’inquieta l’accusa di sfruttamento della prostituzione minorile, sappiate che il fatto non costituisce reato. E’ la vittoria della legge sull’arbitrio. Da Cesano Boscone Silvio Berlusconi sorride attorniato dalle vecchiette che invoglia a mangiare con il gioco dell’aeroplanino. Si sa, i giochini che lui adora sono altri, il Subbuteo è roba da Enrico Letta, ma a volte la vita riserva spiacevoli sorprese. La linea difensiva di Coppi & Dinacci coglie nel segno: quelle cene non erano forse un tripudio di eleganza e sobrietà ma non spetta ai magistrati sanzionare i peccati. Di quelli ciascuno risponde alla propria coscienza, e se ha fede a Dio. Milano non è Kabul, il talebanismo giudiziario s’imbatte in una corte di giudici equilibrati, servitori della legge e non della partigianeria correntizia. Qualcuno obietterà che il ribaltamento di un giudizio in Appello fa parte della normale fisiologia di un processo. Certo ma nel caso del Rubygate di normale non c’è nulla. E’ il pornoprocesso che non sarebbe mai dovuto cominciare. Una giovane e smaliziata marocchina che entra ed esce dalle comunità, e ogni volta falsifica la propria identità millantando false parentele egiziane e 24 anni di età, viene sentita in gran segreto dai pm ambrosiani. Gli psicologi la descrivono come una ragazza difficile, “con una marcata tendenza alle fantasticherie autistiche”, lei si sente braccata e dà sfogo alla fantasie: notti bollenti con noti calciatori, ministre che s’aggirano nude per il palazzo, acrobazie sessuali con attori hollywoodiani. Sono evidentemente balle colossali di una giovane senza bussola, ma la pubblica accusa decide di concederle un credito enorme. Parte il “Grande Fratello” ad Arcore. Decine di ospiti intercettati e pedinati, in barba alla legge. Un torrente velenoso di dettagli piccanti, penalmente irrilevanti, che inaugurano un nuovo genere, il pornogiornalismo d’assalto. Trentatré donzelle, che s’illudevano di poter partecipare persino a cene ineleganti, di poter sculettare a piacimento e puttaneggiare in libertà, sono chiamate in un’aula di tribunale per rispondere di trenini e bunga bunga. Già allora in un paese normale con una giustizia normale un po’ di logica e un po’ di buon senso avrebbero imposto al capo della procura di premere il tasto off. Invece nulla si ferma. Come avremmo appreso in seguito dal tourbillon di esposti incrociati in quello che è ormai per tutti il “caso Milano”, il fascicolo bollente viene custodito gelosamente nell’ufficio di Ilda Boccassini, direzione distrettuale Antimafia. In primo grado la sentenza è scontata, le tre giudici vestono i panni delle vendicatrici di una violata dignità femminile. La “furbizia orientale” di Karima, “il collaudato sistema prostitutivo” volto a soddisfare i “piaceri corporei” dell’allora premier, “regista del bunga bunga”. Tutto vero, messo nero su bianco in una sentenza. Enrico Tranfa, presidente della seconda sezione penale della Corte d’Appello di Milano, ha premuto il tasto off. Per condannare servono reati evidenti, non peccati presunti. Se basta una cortese richiesta d’interessamento per far configurare il reato di concussione, allora siamo tutti concussori e concussi. Se bastano un trenino e un palo di lap dance per finire dietro le sbarre, allora siamo tutti puttane. Oggi i puttani e le puttane d’Italia tirano un sospiro di sollievo. Puttaneggiare non è reato. Milano non è Kabul.
Annalisa Chirico

 

E ora che farà la sinistra che odia i bikini?
Toh, ma guarda: il fatto non sussiste. Così, con un colpo di spugna ai 7 anni comminati in primo grado, i magistrati della seconda sezione della Corte d’appello di Milano hanno assolto il Caimano. Non solo non c’è concussione, ma neppure il tramenio erotico tra ville, statue lubrìche, Bunga Bunga e lenzuola è attività giudicata reato. Boom: l’accusa di prostituzione minorile è deflagrata come un proscenio di cartapesta che s’accartoccia di colpo. Intendiamoci: io Berlusconi non l’ho mai votato. Non compongo nessuna consorteria, non nutro le truppe dei suoi sostenitori, non sono un’adorante fanatica. Anzi, a essere intellettualmente onesti, è giusto scrivere che ha sempre rappresentato quella narrazione antropologica che rifuggo, per educazione e cultura. Eppure ho sempre pensato – ché grazie al cielo nessun fanatismo ideologico m’ha ancora obnubilato le sinapsi – che questo processo fosse una farsa. Il diversivo che si nutre di tutti i vizi italioti – non ultimo la morbosità e una certa sessuofobia – sventolato come ghiottoneria mediatica sopra la faccia di tutti gli italiani. E ho sempre creduto che Berlusconi per ben altre responsabilità dovesse essere inchiodato ai suoi errori: politicamente e giudiziariamente. Diciamocelo: s’è trattato di commedia fin dal principio. Tutto inopportuno, sopra le righe, nello scivoloso border line tra esigenza di verità e morbosità pure un po’ bigotta. Quelle domande dei giudici al velinume, infilate come una rivoltella dentro la lingerie. L’insistenza nell’esigere i dettagli erotici. Tutto questo, a me, ha disturbato fin dall’inizio. Mi è sempre parsa più una golosa polpetta da far sbranare al moralismo di una certa sinistra, che non altro. Perché al di là dello spericolato porsi in una condizione di ricattabilità verso queste donne, considerando il ruolo istituzionale che ricopriva, i costumi sessuali dell’ex premier sono e saranno sempre affari suoi. Ma come farà, adesso, quella sinistra che si è scandalizzata per un bikini, senza più neppure motivazioni giudiziarie ad avallare la guerra del buon costume contro il nemico di una vita? Come sopravviverà, ora, il Tribunale della Santa Inquisizione delle femministe, sacerdotesse del corpo e degli orgasmi altrui? Forse è giusto invitarlo a spostare lo sguardo: da quell’insopportabile hybris del pensarsi sempre depositaria del buon costume e del retto vivere, al fagotto di ipocrisia e cattive condotte che imberta sotto il tappeto, mentre bercia contro il Bunga Bunga.
Paola Bacchiddu

 

Basta vite degli altri e guerre tra femmine
E’ stata puttana, Ruby, per il gran pezzo d’Italia che si è divertito a sfruculiare fra le sue corte sottane, immaginandosi scenari di lussuria tribale cui avrebbe tanto voluto assistere. E’ stata minorenne, bambina nelle fauci del drago, piccola indifesa carpita dal vecchio onnipotente nel regno brianzolo in cui si può ciò che si vuole. E’ stata immigrata clandestina, sfruttata, perduta, salvata, corrotta, nascosta, plagiata. Da ieri forse Ruby potrà finalmente non essere più tutto questo, ma soltanto quello che probabilmente è. Una ragazza volitiva, nata povera, ambiziosa, che nella sua giovane vita ha fatto scelte lucide ai limiti dello scintillante. Cui piacciono le cose belle, i gioielli (anche falsi), le gambe abbronzate, il seno strizzato, i tacchi alti, le discoteche, i troni, le auto di lusso. Che ancheggia, fingendo inconsapevolezza lolitesca, sbatte ciglia imperlate di lacrime nel salotto di Signorini e poi si nasconde braccata da un vantaggioso gioco privato diventato gogna pubblica per una giuria popolare di perbenisti. Da ieri il suo presunto carnefice è stato assolto e lei non avrà più bisogno di mostrare un fidanzato come alibi, giurare su quanto è o non è accaduto fra le sue lenzuola, mostrare la carta d’identità. Ma non è soltanto il suo mondo a essersi capovolto con la sentenza. Si riderà ancora, sulle sue presunte parentele con Mubarak, ma forse sarà più evidente che una intercettazione non vale una vita, e tantomeno un paio.
Da ieri si sa con chiarezza, certificata dalla seconda Corte d’Appello di Milano, che gli italiani al telefono chiacchierano un sacco, si agitano, sproloquiano, financo millantano. Nelle conversazioni registrate ai nostri telefoni, di politici potenti o comuni mortali, si legge che siamo circondati da “nemici” di cui dobbiamo “vendicarci”, che prevedevamo scandali mostruosi e la sappiamo molto lunga su ogni questione scottante. Ancor più quando in ballo ci sono donne arrabbiate e passioni brucianti. Così, nel Ruby-affaire, tutto è nato per lo sfogo di un’ex moglie ferita su un giornale e una telefonata preoccupata da Parigi, ed è proseguito con gli sfoghi origliati. Per la Ruby telefonica, con le amiche, “Silvio è pazzo” di lei, e la copriva di denaro (peraltro nemmeno al telefono, e sulle pagine dei quotidiani, la signorina millantava di aver fatto sesso con l’ex presidente del Consiglio, ma le menti ormai erano accaldate all’idea del bunga bunga percepito). E poi un’altra amata, o rivale in amore, si sfogava al telefono con la segretaria dicendo di aver salvato il Di-Lui-Deretano dallo scandalo (nonostante a lui piacessero le altre, quelle “zingare”), e di meritarsi per questo amorosa riconoscenza e il rinnovo del titolo di preferita del Re. La clamorosa assoluzione dovrebbe insomma insegnarci ad ascoltare un po’ meno le vite (telefoniche e amorose) degli altri, soprattutto nelle guerre tra femmine.
Valentina Fizzotti

 

Ruby, una di noi, niente di meno
Dedico l’assoluzione di Berlusconi a chi ha creduto di far fuori un pessimo leader politico per le azioni compiute in camera da letto e non in Consiglio dei ministri. Vi vedo compìti e obbedienti dire che le sentenze della magistratura si rispettano e poi fargli le pulci per avere ancora un cavillo di ragione. E quelli dal canto loro, ringalluzzirsi che adesso sì, possiamo ripartire. Il mio sommo imbarazzo su questa faccenda si scioglie finalmente e potrò leggere quegli interrogatori in cui togate chiedevano a civili se la presenza delle mutande fosse reale o presunta. Come una brutta pagina della magistratura che archiviamo. Meno male. Però: ricordiamoci per favore le paginate su Sara-Tommasi-neanche-indagata e ogni ragazza-mai-imputata-ogni giorno in prima pagina e con galleria fotografica molto scollata accanto. Da sbirciare tra un’indignazione e l’altra. No, non si fa. Che non accada mai più. Per loro e per nessun altro. Confessione: Avevo vent’anni e la scuola di giornalismo mi mandò all’Unità (stage). Mi misero a seguito di Marco Brando su Mani pulite. Porto la medaglia di aver smentito dopo tre giorni con i fatti (i miei articoli) di essere la nipote di Antonio Di Pietro (ancora ricordo lo svolazzo della toga davanti alle telecamere tv) ma ero convinta davvero che quei signori ci avrebbero liberato dal male. Ho partecipato al giro di giostra che presto intesi nel suo massimo potere di gogna davanti al primo suicidio e da lì imparai che del sentimento insondabile della vergogna ha diritto anche il colpevole. Fu dopo però che elaborai il lutto, constatando che la procura di Milano non ci regalò il mondo nuovo ma Berlusconi e i suoi maggiorenti che ci siamo ciucciati per vent’anni come avversari politici. Ma voi dormivate? E a Ruby, ragazza a cui la sorte ha riservato l’opportunità di conoscere un potente e non di prendere un Phd a Pechino (e se l’è gestita come meglio poteva) posso dire con certezza di non considerarti maestra di niente ma neanche studentessa a cui impartire lezioni di come essere nella vita, una con cui andrei volentieri a cena. Ruby, una di noi, niente di meno.
Alessandra Di Pietro

 

Dov’eravate finite, mie care femministe?
Cosa resterà, del “processo Ruby”? Ora che l’Appello ha azzerato la condanna a sette anni con interdizione dai pubblici uffici per il Cav. espiatorio, perché i fatti che gli sono stati contestati in parte “non sussistono” e in parte “non costituiscono reato”, è possibile riandare con maggiore freddezza ad alcuni momenti fatali e davvero indimenticabili di quella pièce del teatro dell’assurdo chiamata “Rubygate”. Indimenticabile, soprattutto, un’affermazione del procuratore aggiunto Ilda Boccassini, fatta nel contesto della sua requisitoria, secondo la quale “la minore extracomunitaria – persona, lo ripeto, intelligente, furba, di quella furbizia proprio, ‘orientale’, delle sue origini – sfrutta, riesce a sfruttare il proprio essere extracomunitaria”. E’ questa frase che più di ogni altra incornicia una condanna che partiva dal singolare presupposto di una concussione senza concussi, e un processo in cui non è stata mai raggiunta la prova del rapporto sessuale tra Silvio Berlusconi e l’allora minorenne Karima El Mahroug, detta Ruby. Il fatto che lei, come le altre ragazze vigliaccamente marchiate come “Olgettine” – chissà dove erano finite le femministe, nel frattempo – negassero quei rapporti era stato ritenuto non solo irrilevante dai giudici di primo grado, ma materia per accusarle di falsa testimonianza. La sentenza di ieri ci dice che un traballante castello accusatorio è stato costruito su comportamenti certamente irrituali del premier (comportamenti da impresario di avanspettacolo non troppo consapevole di avere nel frattempo cambiato mestiere, grazie ai voti degli italiani), ma che comunque non c’era alcun reato da punire con quella pena abnorme, che di recente ha fatto alzare il sopracciglio perfino ad alcuni arcinemici del Fatto quotidiano (“per una volta i legali di Berlusconi non hanno tutti i torti: la condanna di primo grado nel caso Ruby non sta in piedi. Se la pena non fosse ridotta in Appello non sarebbe uno scandalo”, ha scritto il vicedirettore Marco Lillo: benvenuto nella realtà). La sentenza della seconda sezione della Corte d’Appello di Milano è una buona notizia sulla salute generale di questo paese e della sua magistratura. Rimane da scrivere il capitolo di come sia stato possibile che le cattive ragazze di via Olgettina e la cattivissima Ruby, colpevole di voler diventare ricca e famosa, siano state trattate da certe ex profetesse della libertà di fare del proprio corpo quel che si vuole – dal femminismo neobacchettone, insomma – come se il desiderio di ricchezza e di affermazione fosse reato e subdolo tradimento di tutte le altre donne. Le “buone”.
Nicoletta Tiliacos

 

Ora si può dire che quelle cene erano orrende
Adesso che la Corte d’Appello ha stabilito che non ci fu concussione, possiamo dire che non ci fu buon gusto? Adesso che, e già si intuiva dai sorrisi e dall’atmosfera più rilassata da vent’anni a questa parte, i giudici milanesi hanno pensato di levare l’assedio, o almeno di togliere qualche tenda da sotto l’altopiano di Masada e forse di non pretendere un suicidio collettivo e l’annientamento totale di una comunità (solo una vedova sopravvisse e in questo caso non sarebbe stato chiaro chi) possiamo dire che quelle cene erano ben poco eleganti? Che non ne potevamo più del trinomio minigonna-scarpe con la zeppa-selfie con la bocca a culo di gallina esposto e proposto come modello estetico e filosofia di vita? Che i milanesi detestavano persino la trasformazione del ristorante Giannino da luogo di ritrovo domenicale per famiglie a covo di ogni sguaiataggine? Che se Berlusconi fosse stato più professor Higgings e meno Humbert Humbert si sarebbe risparmiato un sacco di guai? Bisognava sgrossarle, quelle ragazze, renderle presentabili, come le tante puttanone vere di cui il mondo pullula, Milano addirittura trabocca, ma che alzano gli occhioni struccati al cielo in cerca d’aiuto e in perfetto inglese. Avrebbero causato meno problemi delle madonnine infilzate uscite dal collegio, ma uscite da un collegio vero. Anni di processo per un debole per il kitsch e per il gusto dell’eccesso, perché un processo non è mai solo un fatto politico e mai solo una questione di giustizia: è anche, ed è molto, una questione estetica. E quell’estetica era finita, aveva stancato, come una moda che non diverte più. Non faceva più simpatia, quella banda di scappate di casa, minore età o meno importa certo, ma fino a un certo punto, in un paese dove le quindicenni si esercitano in gare di sesso orale in discoteca in cambio di un pass per il privé e poi si infilano le ballerine prima di tornare a casa. Bisognava farle scendere da quei tacchi, provvederle di ballerine, di infradito rasoterra e di corsi di dizione: “The rain in Spain falls mainly on the plane”, non tirarsele in casa così com’erano, mandarle in tv poi far dire in giro che si curavano poco, che anzi puzzavano un po’. Bisognava rifornirle di sapone e di un abbecedario, e strappar loro di mano il rossetto. Si sarebbe data una speranza anche ai genitori che tanto investono, nell’educazione delle proprie figlie.
Fabiana Giacomotti

 

Ma Berlusconi resta politicamente colpevole
Un fatto, la telefonata in questura, non sussiste, l’altro, l’aver fatto sesso con Ruby, non costituisce reato. Il caso è chiuso? Nient’affatto: giuridicamente forse sì. Ma  politicamente si riapre. E non solo per la ragione che oggi i pochi non renziani rimasti in Italia paventano, anzi paventiamo: che questa assoluzione dia una grossa mano a rilegittimare Berlusconi come “padre costituente’’. Il caso si riapre perché il giudizio penale non esaurisce il giudizio politico, morale e culturale, sul “regime del godimento’’ in cui Silvio Berlusconi ha sequestrato l’Italia e l’immaginario degli italiani per vent’anni. Berlusconi può ben essere stato assolto, per mancanza di prove certe – e pur in presenza di una montagna di indizi – dai due reati penali che la procura di Milano gli aveva contestato, perché lo stato di diritto prevede, fra l’altro, che le sentenze si basino su dei requisiti formali che evidentemente, e non senza ragioni, i giudici di secondo grado non hanno riscontrato in quella di primo grado. Ma Berlusconi resta politicamente colpevole per il sistema di scambio fra sesso, denaro e potere che ha messo in piedi e in cui ha coinvolto donne e uomini, minorenni e maggiorenni, ad Arcore, a Palazzo Grazioli, a Villa Certosa e ovunque. Resta colpevole per la concezione di una libertà assoluta, priva di qualunque limite, che ha praticato e predicato. Resta colpevole di avere incarnato un’idea della sessualità ridotta a prestazione, del piacere ridotto a imperativo trasgressivo del potere, del corpo (femminile, ma non solo) ridotto a merce o meglio a valuta. Resta colpevole di avere scatenato una controffensiva alla stagione del Sessantotto e del femminismo basata sulla finzione di un ritorno regressivo ai ruoli sessuali degli anni Cinquanta, per giunta nel contesto odierno di un neoliberismo selvaggio che rende possibile alle sue girl, e non solo a loro, scambiare per libertà sessuale l’essere buone imprenditrici del proprio corpo. Resta colpevole di avere occultato un’impotenza, politica e affettiva, sotto il trucco di un’immortale potenza. Tutto questo, abbiamo detto nel femminismo fin dall’inizio della vicenda, è materia politica di prima grandezza. Il fronte antiberlusconiano, salvo lodevoli eccezioni, non l’ha mai capito. L’ha trattata come materia ingombrante e imbarazzante di cui era meglio tacere, confinandola, non diversamente dal fronte berlusconiano, nella sfera privata, finché con la scoperta della famigerata telefonata alla questura di Milano non è diventata materia penale. A quel punto, e solo a quel punto, ne ha riconosciuto la rilevanza, e la convenienza, a fini politici, delegando as usually il giudizio politico al giudizio penale, e facendo leva sul giudizio penale per sconfiggere Berlusconi come politicamente non era riuscito a fare. L’imbarazzo rimane tale e quale nelle reazioni balbettanti di oggi: dove il punto non è – di nuovo – il merito della vicenda, ma la rilegittimazione per via giudiziaria di un Berlusconi leader “costituente’’ che un anno fa era stato per via giudiziaria delegittimato. Ci sono errori che si pagano, o prima o dopo. Ma Papi non è, non è stato e non sarà mai, un padre costituente. E’ stato e resta l’incarnazione della fine dell’autorità patriarcale, e delle sue controfigure politiche. Sotto quel trucco non c’era niente e le donne, per prime donne molto prossime all’ex premier come Veronica Lario e Patrizia D’Addario, l’hanno capito e denunciato da ben prima che esplodesse il Ruby-gate. Il re  resta nudo, con o senza il beneplacito del giudizio penale. Glossa a margine: qualunque Telemaco punti a farne “il giusto erede’’ o il compare designato ne erediterà anche quel trucco, e rimarrà nudo di conseguenza.
    Ida Dominijanni

 

Tutti a casa, abbiamo perso la guerra
Tutti a casa, compagni. La guerra è finita e noi la abbiamo persa. Per venti lunghi anni abbiamo dubitato del nostro premier, lo abbiamo chiamato puttaniere, e lo abbiamo accusato di uso privato del suo potere. Sbagliato. L’uomo è in verità un politico integerrimo. Altro che rottamazione. E’ quello che ci grida, dall’alto dei suoi scranni, il potere togato, quello stesso che abbiamo venerato per anni, e come smentirlo ora, ora che ha trasformato in un niente il reato di prostituzione minorile e di concussione? Dalla pena massima, sette anni, alla assoluzione totale. Innocente. Altro che rottamazione renziana. Rottamato qui è il pilastro di una lotta politica. E’ la fine di un’era. Ci rassegniamo dunque. Abbiamo sbagliato tutto. Del resto c’è chi vince e c’è chi perde, e tocca accettare le sconfitte. Ma prima di chiudere il cassetto vorrei qui condividere un paio di lezioni che porto con me in questa sconfitta. La prima è che la parte che mi fa più pena di questa sentenza non è la assoluzione dal reato di prostituzione minorile. Non sono mai stata una moralista e chi se ne frega se il premier ama fare cose così poco eleganti come le sue cene eleganti. Penosa è l’assoluzione dal reato di concussione. Fatemi capire: un  premier può telefonare in Questura e fare pressione sui dirigenti dello Stato, sui dipendenti da cui dipende il rispetto della legge, e questo gesto non è pressione, è una legittima iniziativa? La seconda lezione da trarre da questa sentenza è fare tanto di cappello al centrodestra italiano. Ha sempre detto che i giudici sono politicizzati. Che sia vero? Oppure i giudici sono molto attenti ai climi stagionali, come spiegarsi altrimenti oscillazioni così radicali tra il massimo di una sentenza e la assoluzione? Però c’è da dire che un vantaggio c’è nell’attuale soluzione: c’è da #starsereni. Quando nel futuro rileggeremo la storia d’Italia il leader politico che ha firmato le riforme che cambieranno il sistema in vigore dal 1948 non sarà definito un condannato, bensì un politico integerrimo e, in più, perseguitato politico. C’è da #starsereni appunto: abbiamo un padre della patria a fianco di Matteo Renzi. Che poi questo era il punto, no? L’Italia aveva bisogno di riforme, e se serviva farlo con un condannato, è bastato togliere la condanna. Un classico caso di montagna che è andata da Maometto.
    Lucia Annunziata

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