Eravamo tutti puttane

Giuliano Ferrara

Il Pregiudicato era dunque, come a noi era parso, piuttosto un Perseguitato. Errori ne ha commessi, ma non sono un reato penale, se non per una parte (oggi sconfitta) del contropotere togato e manettaro. Adesso un bacio al Cav.

Essere Berlusconi non è reato: è lo slogan da comizio di una manifestazione convocata dal Foglio in piazza Farnese a Roma subito dopo la grottesca sentenza che condannava a sette anni di galera l’ex presidente del Consiglio e metteva sotto scacco tutta la sua difesa e i testimoni a discarico, criminalizzando ogni cosa. Siamo tutti puttane era il titolo della manifestazione e del manifesto che la convocava a caldo. Sono espressioni autoesplicative, su sfondo ironico la cui percezione è facoltativa per tutti e ostica per i cretini, che non hanno bisogno di chiose.

 

Il Pregiudicato era dunque, come a noi era parso, piuttosto un Perseguitato. Il Berlusconi che conosciamo e di cui siamo – alcuni di noi – fedeli amici e non servili, non è un fiorellino di campo, beninteso. Errori e leggerezze nutrono tutta la sua vicenda pubblica, una splendida parabola di imprenditore borderline e outsider, e la sua straordinaria avventura politica, la più significativa e importante nella storia degli ultimi vent’anni. Non soltanto sulla scala italiana o europea. Ma né gli errori né le leggerezze, o le mattane, costituiscono reato penale, se non per quella sezione di ceto giudiziario prepotente che ha creduto di riscattare decenni di servilismo e di discriminazione politica, al servizio del potere, con vent’anni di spregevole accanimento e politicizzazione militante, al servizio dello pseudo contropotere. Questo e solo questo era in discussione, visto che gli italiani saranno anche rincoglioniti da Maria De Filippi e da “Beautiful” ma hanno ancora cervello e carattere abbastanza per scegliersi chi li governa, cosa che hanno fatto votando più volte Berlusconi e vedendoselo più volte sequestrato da una giunta paragolpista composta di finti gentiluomini d’establishment, togati d’assalto tra cui un Di Pietro, una sinistra parecchio cialtrona fino a Renzi escluso, e giornalisti che si autocelebrano nei vari Festival e premi del narcisismo mentre meriterebbero la censura dei loro lettori, loro e i loro interessati padroni, per il grumo di viltà, di spirito gregario, di incompetenza professionale e di furberia maramalda che è fluito, come un fiume di inchiostro velenoso, lungo un pezzo decisivo di storia italiana.

 

Mi spiace che questo sia un appunto alla memoria, ma chi ha scritto e pubblicato articoli in cui Rostagno era stato ucciso dai suoi piuttosto che dalla mafia trapanese e Berlusconi era l’organizzatore di un racket di prostituzione e il concussore del dottor Ostuni, ha eredi dalle spalle larghe che dovrebbero sentirsi in dovere di rispondere di quanto accaduto; chi ha guadagnato fior di quattrini rincoglionendo, lui sì, gli italiani a forza di intercettazioni e pedinamenti pruriginosi, fotografie della vita privata di uomini pubblici e non pubblici, di ragazze il cui corpo e la cui immagine sono stati esposti a un feroce linciaggio, dovrebbe andarsi a seppellire sotto quel “comune sentimento del pudore” che era il titolo di ignobiltà dei processi e delle campagne reazionarie degli anni Cinquanta italiani ed è diventato il blasone di campagne isteriche, stizzite, faziose condotte in nome di valori modernizzanti, fintofemministi, e di un moralismo d’accatto che, alla luce degli anni di galera ottenuti in pegno in primo grado, fa venire i brividi.

 

Abbiamo sempre accettato un gioco in cui a noi era riservato il posto di servi e amici di delinquenti, e a loro quello di persone inconcusse, cercatori di verità nel mestiere di contropotere che è la libera stampa. Quel gioco ironico è finito. E non per una sentenza che caratterizza una storia nazionale in modo irreversibile, ma per il fatto che quella sentenza ha la forza naturale, in un paese le cui élite hanno rinunciato per gola a ragionare in proprio, affidando ai tribunali la verità effettuale della cosa (come direbbe Machiavelli), di aprire le menti alla possibilità, che per noi è sempre stata al di là di ogni ragionevole dubbio, che Silvio Berlusconi fosse vittima, più ancora che dei suoi evidenti difetti, della carognaggine dei suoi arcinemici, una perfidia accusatoria plebea e demagogica che al nostro amato Cav. non è mai appartenuta, se non di contrappasso, senza crederci, in replica disperata agli attacchi che in due decenni hanno minacciato di distruggerlo. Non è che noi adesso sposiamo la verità giudiziaria nella quale ci siamo sempre invano identificati quando i tribunali la negavano, è che le cosiddette “risultanze processuali” mettono in luce lo spirito inquisitorio senza prove che è l’essenza storica del partito dei magistrati e dei giornalisti combattenti, un grumo intimidatorio di antidemocrazia e di illiberalismo.

 

Sia dato quel che è onorevole e dovuto, sulla scorta di una sentenza di assoluzione clamorosa che ammonisce anche a non prendere sul serio la balla spacciata per definitività che è la cosiddetta “sentenza Esposito” di frode fiscale, a chi – pochi – è rimasto fermo in tutti questi anni dalla parte giusta, dalla parte di quel torto morale che ha sempre cercato di arginare il diritto politico di ammazzare gli avversari trasformandoli in uomo nero, in caimano, in delinquente assoluto. E un bacio a Berlusconi, ai suoi amici anche i più boccacceschi, alle sue graziose amichette invitate a cena ad Arcore e processate per questo in un dibattimento che, come ha accennato con parole sobrie il magistrato di Prato intervistato ieri da Claudio Cerasa, Piero Tony, non avrebbe mai dovuto avere luogo, e si è confermato ieri come una truffa e una macchinazione impudica di livello e conseguenze internazionali.

 

  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.