Lionel Messi (Foto Ap)

Messi al bivio: eternità o genio incompiuto

Pierluigi Pardo

Tra essere il più grande e essere Maradona c'è un apostrofo albiceleste che ancora manca. Vincere con la Seleccìon. 

Forse l'endorsement inatteso e piuttosto spericolato di Neymar gli darà ancora più forza. L'idea che il miglior talento brasiliano tifi per lui nel giorno più lungo e importante della sua vita é un compromesso storico senza precedenti che incendia ogni conversazione in qualsiasi bar di Rio de Janeiro e San Paolo. Questione di amicizia e ammirazione. Ulteriore conferma di una cosa che tutti sanno: Leo Messi é il più grande, senza dubbio.

 

Ma tra essere il più grande e essere Maradona c'è un apostrofo albiceleste che ancora manca. Vincere con la Seleccìon. Eguagliare con la squadra nazionale le gesta del Pibe, annata 1986, quando Diego Armando spinse una buona squadra più in là di tutti, tra magie assortite (i gol all'Inghilterra e al Belgio sono la Grande Bellezza) e mani di Dio. 

 

Strano destino quello di Lionel. Bivio stretto nella notte di Rio De Janeiro. Ansia da prestazione che solo gli sportivi vivono. Questione di dettagli: attimi, centimetri, traiettorie di qua o di là da un palo, sopra o sotto la traversa. Tutto al confine esatto con il destino, che separa i trionfatori dagli sconfitti, condannando i secondi all'oblio e lasciando i primi nella gloria eterna. 

 

Una  condizione unica. Gli artisti, i pensatori, i governanti, non vivono la stessa schiavitù dell'attimo. Hanno tempo per pensare, per inventare, per decidere. Hanno (quasi) sempre un domani. Van Gogh e Proust, Goethe e Cristoforo Colombo, Woody Allen, Andy Warhol e quelli come loro si sono guadagnati l'immortalità in anni di imprese eroiche, geniali scoperte, meravigliosi atti creativi. Non sono stati condannati a giocarsi tutto in novanta minuti (supplementari esclusi). 

 

Per Leo Messi, invece, sarà così. Come se ne parlerà tra cento anni, come verrà ricordato dalle future generazioni, dipende solo dalla notte del Maracaná di domenica prossima. Se vince diventa eterno, se perde rischia di rimanere il più grande fuoriclasse incompiuto della storia del calcio. 

 

E' successo anche agli altri. Pelé avrà pure fatto mille gol in carriera, ma senza il '58, il '62 e il '70 non sarebbe Pelé. Maradona deve (quasi) tutto a quel pomeriggio all'Azteca di ventotto anni fa, alla vittoria in finale contro la Germania (tutto torna).

 

E non conta il fatto che Lionel Messi abbia vinto giá moltissimo. Sei scudetti col Barça, tre Champions League, quattro volte il Pallone d'Oro. É stato il più giovane ad aver segnato in un Mondiale, l'unico a fare 92 gol in un anno solare, il 2012. 365 reti totali in carriera a 27 anni appena compiuti. Il tempo per continuare a vincere e far soldi, esultare e scrivere biografie é molto, davanti. 

 

Eppure questo non cambia la sostanza. Nessuna notte sarà così pesante come quella di domenica. La pressione addosso a lui è totale. Non ha segnato nelle ultime tre partite, dopo un inizio di Mondiale intermittente ma con colpi di genio (gol strepitosi con Bosnia e Iran e doppietta alla Nigeria). Se l'altro giorno la sua Argentina fosse uscita ai rigori contro l'Olanda si sarebbe parlato di fallimento, invece la strada per la gloria, anche grazie al portiere Romero e alle sue parate ai rigori, è ancora spalancata.  

 

Il Mondiale vinto sarebbe la pagina più gloriosa di una saga già perfettamente compiuta. Il dualismo con Cristiano Ronaldo funziona, entrambi fenomeni ma così diversi. Di là c'è l'atleta bellissimo, perfetto, con la forza continuamente ostentata e gli addominali scolpiti; di qua il ragazzo piccolo, introverso, dal talento smisurato tutto nei piedi, con un fisico apparentemente da persona normale (il calcio é davvero per tutti, ognuno può trovare il suo spazio). 

 

La sua storia ormai la sanno tutti. Messi da piccolo cresceva poco, da sempre lo chiamano "pulce", ha imparato la parola somatotropina quando era giovanissimo. Le cure mediche pagate dal Barcellona, dopo che il River Plate, pure interessato, non aveva investito i 900 dollari al mese necessari e aveva rinunciato, l'arrivo in Spagna da predestinato, la crescita inesorabile, le Champions da protagonista a Roma e a Wembley, i 41 gol di quest'anno peggior risultato dal 2009, il mistero delle crisi di vomito, forse il tentativo di risparmiare energie per il Brasile. 

 

Adesso ci siamo. Quella di domenica sera non sarà solo la sfida tra quarantuno milioni di argentini e ottantadue milioni di tedeschi, tra il Papa teologo simpatizzante del Bayern e il Papa pop ultrà del San Lorenzo, tra due donne al potere, Angela e Cristina. 

 

Sarà soprattutto la notte di Leo Messi. Il più forte di tutti sarà quello che avrà di più da perdere. E da vincere. Se ce la farà non sarà solo merito suo, se fallirà non soltanto sua la colpa. Comunque sia, il senso di tutta la storia verrà racchiuso in una sola notte, enorme, nello stadio più grande, sotto al cielo di Rio.