"Dio caccia Abramo". Illustrazione di William Blake

La divinità à la carte dei millennial

Basta con le istituzioni e i sistemi binari: i giovani americani cercano una religione customizzata quanto i prodotti che acquistano online. “La domanda su cos’è vero o falso non interessa più”, dice Wieseltier

New York. Il dibattito sull’evoluzione della religione in America fra l’intellettuale ebreo Leon Wieseltier, la storica Molly Worthen e l’avvocato musulmano Arsalan Iftikhar all’Aspen Ideas Festival ha preso una piega diversa dopo l’intervento di una signora del pubblico. Ha raccontato di essere stata educata alla fede cattolica, ma dei suoi quattro figli uno è buddista, uno ebreo e due sono “undeclareds”, agnostici o forse semplicemente contrari all’idea di appiccicare un’etichetta definitiva sul loro credo. “Mi piace l’idea che la religione stia evolvendo – ha spiegato – e magari i miei figli valuteranno le parti delle tradizioni religiose che piacciono loro e le mischieranno. Forse saranno meno divisivi e questo cambierà il volto della religione nella società”. Più che la descrizione delle pratiche di un’oscura setta sincretista, è un lucido ritratto del dio dei millennial americani e non solo, divinità à la carte, universalmente relativa, sempre cangiante, che sfugge alla dogmatica e agli apparati religiosi istituzionali – fedifraghe sovrastrutture finalizzate al controllo delle menti più malleabili – svincolato dalla Verità come categoria trascendentale, personalizzato come un prodotto acquistato online. “Gli americani – ha spiegato Wieseltier – stanno cercando di portare la loro esperienza religiosa allo stesso livello di customizzazione che si aspettano quando fanno shopping. Trattano la tradizione come consumatori o, diciamo così, come consumatori fedeli a un certo negozio. Ma gli americani non sono più interessati alla domanda su cosa è vero o falso circa l’universo”. Il millenarismo delle origini dell’America ha ceduto il passo al millennialismo religioso, atomizzazione personalistica del divino le cui figure si susseguono e si sovrappongono come foto su Facebook. E’ l’apoteosi dell’atteggiamento “pick and choose” che domina le giovani generazioni americane: i millennial – lo confermano una pletora di studi e di sondaggi – rifiutano in modo massiccio le antiche dicotomie, non sentono il bisogno di scegliere fra repubblicani e democratici, fra religione e ateismo, fra Beatles e Rolling Stones, fra maschio e femmina, fra local e global, fra analogico e digitale, fra bene e male; sono cresciuti dopo la “fine della storia” di Francis Fukuyama, non hanno esperienza del mondo diviso in due blocchi animati da visioni del mondo incompatibili. Rifiutano, in fondo, la formula minima dell’identità: A=A.

 

Significa che questa fetta d’America ha perso qualunque afflato religioso? O che i millennial si preparano a distruggere con violenza giacobina le vestigia del divino? Tutt’altro. L’impulso spirituale verso una dimensione ulteriore dell’esperienza o almeno verso un criterio di discernimento morale se la passa benissimo, basta dare un’occhiata alla religione intimista di Oprah Winfrey o a quella benefica di Eat, Pray, Love per farsi un’idea. La spiritualità è perfettamente sdoganata nel life coaching, nelle adunate per suscitare autostima, nelle pieghe apocalittiche del mondo tecnologico, nelle sedute degli alcolisti anonimi; fra gli hipster di Williamsburg e San Francisco vanno molto di moda la stregoneria e le digressioni nell’occulto, surrogati religiosi lgbt-friendly e soprattutto sempre aperti all’interpretazione, fatti di liturgie duttili e personalizzabili come i pantaloni no brand comprati nel negozio online di fiducia. Sfuggire al giogo dell’identità, questa è l’unica costante in un universo senza costanti. Qualche anno fa Ross Douthat, columnist del New York Times conservatore e cattolico, ha scritto “Bad Religion”, un’analisi documentata della profonda crisi della religione istituzionale in America. Le chiese si svuotano, le vocazioni crollano, i templi sono in crisi, ma la spiritualità degli americani è viva, e si esprime nelle forme intimistiche dell’auto-motivazione, ripiega nella cittadella della coscienza, non nella “città sulla collina sulla quale saranno puntati gli occhi di tutti” di Winthorp, profezia puritana che conteneva una certa carica universalistica. Nel suo racconto dei principali filoni della religiosità fai-da-te Douthat omette però quella potente tendenza alla customizzazione che emerge nel dialogo di Aspen. Non ci sono scuole di pensiero, persuasioni, non c’è la dimensione settaria perché ciascuno è setta a se stante, barman e cliente di un cocktail religioso che può sempre essere corretto e ri-shakerato. Un meccanismo che ricorda l’atteggiamento delle legioni di atei che si sono improvvisati cantori delle lodi di Francesco nella misura in cui conferma i loro pregiudizi sul mondo, offrendo un confortevole “chi sono io per giudicare?” immediatamente esteso a piacere a qualunque ambito della vita.

 

“Se non c’è Dio, sono ancora capitano io?”, chiedeva ai suoi interlocutori atei il capitano di ventura dei “Demòni”; “E’ necessario credere in Dio per essere cattolico?”, chiede oggi uno spettatore del festival dell’Aspen Institute. E Worthen, che è storica delle religioni e a sua volta millennial, deve scusarsi per la sua posizione “old fashioned” sull’argomento: “Direi che per essere cattolico uno deve credere in Dio. C’è un problema con la iper-individualizzazione della religione dei millennial. Il vantaggio di un’istituzione è che ti costringe a un dialogo con persone con le quali potresti non essere d’accordo. Ti costringe a confrontarti con una tradizione che include idee forti. Ti costringe ad avere un rispetto per un’autorità che ti introduce all’idea che hai qualcosa da imparare che non stai reinventando la ruota, ma che millenni di storia ti precedono. La struttura delle istituzioni, con tutti i loro limiti, facilita questo. E lo stiamo perdendo”. La iper-personalizzazione della religione è un corollario di quello che il sociologo delle religioni Christian Smith quasi dieci anni fa ha definito il “teismo moralistico terapeutico”, che imperava fra le giovani generazioni di americani. La maggioranza degli intervistati rifuggiva, così come rifugge oggi, un esplicito ateismo, ma aveva ridotto il divino a una generica precettistica che molti dei ragazzi sintetizzavano con “non fare lo stronzo”. Dio, insomma, è la coscienza che ti suggerisce di “non fare lo stronzo”. Non c’è effettivamente bisogno di una divinità siffatta per essere cattolici, o religiosi.

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