Messa e manette

Guido Vitiello

Dietro il mistero teologico della santificazione del pubblico ministero. Cronache da una grande menzogna pretesca

Certe mattine, quando leggo la cronaca giudiziaria, sento suonare le campane. Non le campane a festa degli innamorati, e neppure i rintocchi presaghi dei moribondi: solo un comune scampanìo che chiama per la messa. Devo spaventarmi di questa allucinazione uditiva a sfondo mistico? Consultare uno psichiatra, sottopormi a qualche test? Forse non ce n’è ragione. In fin dei conti, la parentela tra rito religioso e rito giudiziario è antica quanto l’uno e quanto l’altro, la toga e la tonaca sono cucite a filo doppio. Sul finire della guerra Guido Raffaelli, magistrato d’appello a Milano, pubblicò un piccolo libro che si chiamava “Il sacerdote di Temi”, dove agli officianti del culto della dea Giustizia erano offerti consigli, esortazioni e precetti in un tono solenne e catechistico: “Il giudice fu ed è considerato un sacerdote; il luogo, in cui egli giudica, un tempio, e la funzione del giudicare fu detta divina”. Documenti di tempi andati, echi distanti di un’idea del magistrato e della sua dignitas che non ha più corso, e che già vent’anni dopo le giovani leve avrebbero considerato pomposa, conservatrice e antiquata. E allora perché io continuo a sentire le campane?

 

Nell’attesa di una diagnosi specialistica, mi sono dato una prima risposta. E cioè che quel tratto ecclesiastico, che il giudice associa sempre più di rado alla propria persona e alla propria funzione, non è scomparso affatto. Solo, dal singolo si è trasferito alla corporazione nel suo insieme, e quel che si è perso in sussiego sacerdotale lo si è guadagnato in spregiudicatezza curiale. Forse la riabilitazione di Tortora sarà più rapida di quella di Galileo, ma facciamo caso al modo tutto pontificio che ha la magistratura di rapportarsi alle altre funzioni dello Stato, alla stregua di un secondo Vaticano. Chi abbia in testa il ritornello di certe vecchie pagine anticlericali non faticherà a riconoscere nell’atteggiamento delle toghe verso parlamenti e governi tutto il repertorio di astuzie, di duplicità, di virtuose preoccupazioni, virtuose lagnanze e virtuose ipocrisie che facevano infuriare un Ernesto Rossi o un Gaetano Salvemini. “Il clericale domanda la libertà per sé in nome del principio liberale, salvo a sopprimerla negli altri, non appena gli sia possibile, in nome del principio clericale”, scriveva Salvemini. Con qualche ritocco minore, è la formula perfetta per una doppiezza caratteristica della corporazione togata: l’abitudine di scampanare allarme per l’attentato all’indipendenza e all’autonomia della magistratura se mai qualcuno si arrischia ad impicciarsi nell’autogoverno dei magistrati, salvo poi interferire senza alcuna remora nel processo legislativo e nei programmi di riforma con un dosaggio accorto di blandizie e larvate minacce, persuasioni e dissuasioni, pareri e circolari.

 

Ma non è certo il solo rintocco, il solo scampanìo. Cosa c’è di più intimamente clericale dell’ideologia professionale del “controllo di legalità”, che da più di un ventennio una larga parte della magistratura intende come una sorta di vigilanza morale permanente esercitata da un Oltretevere giudiziario, una tutela paternalistica sulla vita e la virtù della nazione, una mansione da pastori del gregge? E un’insistente nota curiale si avverte pure nell’occhiuta amministrazione delle informazioni interne, nella deliberata ricerca dell’opacità, nel fastidio e nel senso di oltraggio quando trapelano notizie di conflitti e di discordie, nell’aspirazione a lavare i panni sporchi in famiglia e di non stenderli neppure dopo in balcone. Tutti i nodi venuti al pettine nel caso Bruti Liberati-Robledo, al cui centro si contempla il grande mistero teologico, o meglio la grande menzogna pretesca della giustizia italiana: quell’obbligatorietà dell’azione penale che non esiste in nessun cielo ma è difesa e omaggiata con un intreccio tutto gesuitico di dogmatismo e casuistica…

 

Le sentite anche voi, le campane?

 

 

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