Militanti dell'Isis fanno ingresso a Mosul (Foto Ap)

L'Iraq è un affare gestito dall'Iran

Daniele Raineri

Maliki se ne infischia degli americani perché Teheran e Mosca lo aiutano contro lo Stato islamico.

Roma. L’Iran sta intervenendo nella guerra in Iraq con un programma di aiuti militari che include voli di droni non armati e tonnellate di rifornimenti bellici, scrive il New York Times – che ha sentito “funzionari americani di alto livello” al corrente delle operazioni. Il primo ministro iracheno Nouri al Maliki reagisce deridendo pubblicamente l’alleanza funzionale che conserva con gli Stati Uniti.

 

Gli iraniani hanno allestito un centro di controllo speciale nella base aerea di Rasheed, che un tempo era usata dagli americani con il nome di Camp Redcatcher, e da lì fanno decollare una flotta di piccoli droni da ricognizione Ababil. Nella stessa base è arrivata un’unità che si occupa specificamente di intercettare le comunicazioni elettroniche tra i combattenti dello Stato islamico e i comandanti.

 

All’aeroporto di Baghdad arrivano aerei cargo iraniani due volte al giorno, e ciascuno porta 70 tonnellate di materiale militare. “E’ una grossa quantità – dice una fonte al New York Times – non necessariamente è tutto armamento pesante, ma non  si tratta soltanto di armi leggere e munizioni”.

 

Il generale Qassem Suleimani è l’architetto iraniano della rimonta militare del presidente Bashar el Assad in Siria e nelle ultime due settimane è stato almeno due volte a Baghdad per aiutare la risposta del governo iracheno all’offensiva dello Stato islamico. Suleimani esercita in modo occulto e da anni una grande influenza su tutta la regione ed è citato in tutti gli articoli e in tutte le analisi con toni di riverenza. E’ probabilmente grazie a lui, dice al Foglio Alexandre Massimo, uno degli studiosi più attenti della guerra in Iraq, che la mobilitazione delle milizie di volontari sciiti che arrivano dalle regioni del sud sta avvenendo così in fretta (anche in Siria il generale Suleimani ha armato delle milizie volontarie. In entrambi i paesi, lo ha fatto per ovviare alle condizioni disastrose in cui versano i due eserciti governativi). Secondo alcune fonti diplomatiche occidentali, il governo di Teheran è aperto a una possibile collaborazione con gli Stati Uniti e il generale Suleimani è invece contrario.

 

Si tratta di un coinvolgimento meno diretto da parte dell’Iran di quello che si era pensato in un primo momento: nei giorni successivi al 10 giugno, quando è cominciata l’offensiva dello Stato islamico (Isis) e la città di Mosul è caduta, il Wall Street Journal aveva scritto che almeno due battaglioni delle Guardie della rivoluzione iraniane erano già impegnati in combattimenti nelle strade per salvare la moschea di Samarra – sacra agli sciiti. La notizia non è mai stata confermata. Il ruolo iraniano assomiglia più a quella dottrina del “leading from behind” – guidare le manovre militari senza assumere il ruolo principale e più visibile – che l’Amministrazione Obama inaugurò durante la guerra della Nato in Libia contro il colonnello Gheddafi.

 


Nel caso dell’Iran, che considera il vicino governo iracheno come un alleato subordinato, si può parlare di un “leading from close behind”. Se le cose precipitano e lo Stato islamico sfonda a Samarra e minaccia da vicino la capitale Baghdad (dove già è presente, ma non in forze), l’Iran tiene pronta una forza di reazione rapida al di là del confine. Dieci divisioni dell’esercito e delle Guardie della rivoluzione ammassate in stato di allerta, per intervenire in aiuto del primo ministro iracheno Nouri al Maliki. “Due dozzine” di aerei sono nella parte occidentale dell’Iran per possibili missioni sull’Iraq.

 

Secondo il giornalista Elijah J Magnier, del giornale giordano al Rai, a Damasco è stata creata una sala operativa per coordinare le operazioni siriane in Iraq, in particolare gli attacchi aerei contro lo Stato islamico – come quello di martedì su al Qaim e anche a Rutba, vicino alla Giordania. Nella sala operativa ci sono consiglieri militari in contatto sia con il governo siriano sia con il governo iracheno. Si tratta di una risposta alla troppa lentezza e alla poca voglia dell’America e dell’Arabia Saudita di intervenire, a settimane di distanza dalla caduta di Mosul. Ieri il primo ministro iracheno Maliki ha detto di non avere coordinato i bombardamenti su al Qaim con il governo siriano, ma che ogni intervento militare contro lo Stato islamico “è benvenuto”. La dichiarazione è rivelatrice di cosa si pensi nella Zona verde sul Tigri in questi giorni: non importa chi bombarda in Iraq, basta che bombardi.

 

Considerato che l’Iran sta agendo come garante militare della sopravvivenza di Maliki, si capisce perché il primo ministro ha ignorato del tutto le richieste della Casa Bianca, che ufficialmente ha promesso aiuto militare all’Iraq soltanto in cambio di un governo che includesse anche i sunniti – e che ufficiosamente vuole le dimissioni di Maliki per calmare l’ira della minoranza sunnita. Dopo che il segretario di stato americano, John Kerry, ha parlato lunedì e martedì ai leader iracheni della necessità di un “governo di salvataggio”, il primo ministro ha parlato con tono di sfida agli americani e agli altri politici iracheni: “Chiedere un governo di emergenza nazionale è un colpo di stato contro la Costituzione e le procedure politiche”. Ieri Maliki ha detto in un’intervista con il servizio in arabo della Bbc che firmare un contratto con gli americani per l’acquisto di caccia è stato un errore: “Siamo delusi da loro, ci vorrà tempo. Se invece avessimo comprato gli aerei da altri, come la Gran Bretagna, la Francia o la Russia, ora li avremmo già e potremmo dare copertura aerea alle nostre forze: se avessimo avuto copertura aerea avremmo potuto evitare quello che è successo”. Il primo ministro ha anche detto che l’Iraq sta acquistando jet di seconda mano dalla Russia e dalla Bielorussia, “dovrebbero arrivare in due-tre giorni”. “Se Dio vuole, entro una settimana questa forza sarà operativa e distruggerà i covi dei terroristi”.

 

 

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  • Daniele Raineri
  • Di Genova. Nella redazione del Foglio mi occupo soprattutto delle notizie dall'estero. Sono stato corrispondente dal Cairo e da New York. Ho lavorato in Iraq, Siria e altri paesi. Ho studiato arabo in Yemen. Sono stato giornalista embedded con i soldati americani, con l'esercito iracheno, con i paracadutisti italiani e con i ribelli siriani durante la rivoluzione. Segui la pagina Facebook (https://www.facebook.com/news.danieleraineri/)