Un tifoso degli Stati Uniti durante la partita giocata contro il Ghana (Foto Ap)

We love soccer

Stefano Pistolini

L’America non guarda più il calcio come una cosa strana. Record di tifo per i Mondiali.

Sarà la pacificata, ormai dominante globalizzazione degli Stati Uniti. Sarà che per divertirsi a un gioco bisogna partecipare e non solo guardare. Ma l’effetto-Mondiali visto dall’America è strabiliante e aggiorna la dimensione sportiva del Grande paese in versione XXI secolo, lontano dai luoghi comuni degli “sport Usa” e della cronica idiosincrasia al calcio. L’America partecipa al banchetto del Mondiale con un entusiasmo popolare travolgente e con la potenza mediatica che sa esprimere meglio di qualsiasi altro paese al mondo. E’ “mania” a tutti gli effetti, per una serie di fattori scatenanti ben oltre i luoghi comuni delle minoranze che liberano la loro voglia di pallone.

 

Il fenomeno è trasversale e non fa distinguo etnici, ma gode di un evidente fattore trainante: il pubblico degli under 30, motore partecipativo di questo boom, sia nei numeri, sia nelle modalità di consumo (merchandising a man bassa, rituali di aggregazione, creatività reale e digitale nelle modalità del tifo), con effetti che stanno sbalordendo gli specialisti. Perché una delle prime conseguenze di questa escalation e di questa epidemica attenzione per il Mondiale, è il ridimensionamento degli altri eventi abitualmente in scena negli States di questi tempi, come le Finals dell’Nba – che pure hanno appena messo in scena un “drama” notevole, come la caduta dei Miami Heat – come il campionato nazionale di golf – peraltro sfortunatamente dominato da un tedesco – e soprattutto come il cuore della stagione del baseball, lo sport più penalizzato dal trionfo di Brasile 2014, per l’incolmabile divario di spettacolarità tra i due eventi: da un lato le sfide da 90 minuti del pallone, presentate come confronti tra culture, nazioni, ambizioni, in una perenne atmosfera-Termopili. Dall’altro l’interminabile rituale dei 9 innings, con i suoi ritmi da pomeriggio pensionistico. All’origine di questo successo, si sono due fattori indispensabili.

 

Da un lato, adesso gli Usa hanno una decente squadra nella quale credere. Il capolavoro di Klinsmann è stato di dare una dimensione identitaria al team Usa, che non è più un’accolita di emigranti noleggiati per l’occasione, ma una squadra nella quale si dà massimo rilievo a fattori quali l’orgoglio nazionale, la responsabilità rappresentativa, l’esteriorizzazione di sentimenti a cui la platea Usa è sensibilissima, come il patriottismo, lo sforzo collettivo, il capolavoro individuale. La vittoria sul Ghana è stata salutata da un entusiasmo a dir poco sovradimensionato, per la drammaturgia stessa di quella partita e, soprattutto, per la cornice nella quale è stata presentata, la sfida tra due popoli, da una parte gli abili e atletici africani, dall’altra i ragazzi americani che hanno imparato come si fa e sono pronti a dar filo da torcere a tutti. Lo slogan più riuscito coniato per l’occasione dice che gli Usa, finalmente mettono in campo, se non l’abituale Dream team, un Team of dreams, senza macchia e senza paura, con un gladiatore come Dempsey a fare il condottiero con la faccia giusta. Gli americani ci hanno creduto e sono impazziti.

 

La seconda miccia del botto è la tv e il modo in cui si è connessa all’evento. Il Mondiale lo trovate dappertutto, in ogni angolo d’America: non c’è bar, vetrina, parco, strada, albergo, ristorante, palestra che non abbia un megaschermo acceso sul Brasile. E’ ovunque, per tutti, 24 ore al giorno, in un’immersione totale che ridicolizza la dimensione nostrana dell’abbonamento Sky per chi se lo può pagare. Attraverso Espn, il Mondiale è materia condivisa accessibile, fattore unificante e repertorio d’intrattenimento collettivo.

 

Messi a Los Angeles

 

Gli americani hanno scoperto il tifo (al Grant Park di Chicago a vedere l’esordio degli Usa c’era più gente che a salutare l’elezione di Obama), hanno scoperto la dimensione della Nazionale, hanno scoperto le partite senza interruzioni pubblicitarie – [**Video_box_2**]tanto per gli inserzionisti e le tv il Bengodi viaggia a colpi di sponsor e di share. E ci stanno già mettendo del loro, trasformando ogni partita in un Superbowl, con dirette interminabili, talk-show, analisti e il patrimonio di know-how della spettacolarizzazione di cui sono in possesso.

 

Il fenomeno è eccezionale e riaggiorna il quadro della cultura popolare di questa nazione. Cosa ne può nascere è da vedere e sta, principalmente, nei piedi dei giocatori americani: qualsiasi miracolo qui avrebbe l’effetto della discesa degli ultracorpi. Per il resto, aspettiamoci Rooney, Messi, Pirlo sotto contratto a Los Angeles o Miami entro un paio d’anni. I nuovi eroi sono loro e hanno la prerogativa di sembrare “normali” come gli americani della strada, alti o bassetti, di gamba corta e con la pinguedine. Per chi non ci crede, poi, ci sono sempre i “Transformers”.