La delusione dei tifosi spagnoli dopo la sconfitta contro il Cile (Foto Ap)

Non ci avevo capito niente, ma resto fedele alla Grande Spagna

Lanfranco Pace

Ho indovinato la previsione ma ho sbagliato il contesto, che è un modo molto democristiano per dire che non ci ho capito un cazzo. Non ho saputo cogliere sguardi impauriti, quasi rassegnati dei grandi di Spagna.

Ho indovinato la previsione ma ho sbagliato il contesto, che è un modo molto democristiano per dire che non ci ho capito un cazzo. Non ho saputo cogliere sguardi impauriti, quasi rassegnati dei grandi di Spagna, non ho avvertito il peso della loro fatica, muscoli senza possibilità di riscatto, di resurrezione. Perché la testa vacillava, forse era già altrove, magari volta all’indietro a ripercorrere una strada di successi lunga sei anni, che poi è il modo migliore con cui si stacca la spina. Sette gol presi e uno solo segnato per altro su rigore, nessuno su azione anche se nell’arco delle due partite sette o otto occasioni se le sono costruite: ma quando non va dentro di te non va nemmeno fuori, il piede si incarta, la gamba si mette di sghimbescio, l’occhio sbaglia il calcolo delle distanze e delle traiettorie. E la paura ti attanaglia. Stanchi, logori per aver giocato più di tutti nei campionati e nelle coppe, raramente sono arrivati primi sul pallone, si sono fatti bruciare sullo scatto dagli olandesi e polverizzare dai cileni.

 

Se ne vanno insieme a una grande Australia e a uno sgangherato Camerun, nella prima infornata dei condannati dall’aritmetica. Andrés Iniesta, a cui si deve la vittoria al Mondiale del 2010, ora esce dal campo, lo riprendono di spalle, ha il numero 8 sulla maglia, intorno nessuno, un terreno vago che sembra ancora più grande e più vuoto, il capo chino, non piange ma le lacrime è come se si sentissero. M’è venuta tristezza come ogni volta che vedo l’agonia di qualcuno che ha intensamente e gioiosamente vissuto. Loro sapevano dunque, io, ammiratore di complemento e lontano, no. Ma resto loro fedele per quello che mi hanno dato. Mai mi unirei e mai mi unirò al coro soddisfatto di quelli che ora dicono hai visto te l’avevamo detto, non funziona il tiki e il taka, che poi questi iettatori se sono delle nostre terre hanno sempre un che di particolarmente vile e maramaldo. La Spagna ha dominato il calcio mondiale negli ultimi sei anni, ha prodotto un gioco e una generazione di attori che ha rasentato la perfezione.

 

Quando ho spento il televisore, mi sono trovato per le mani il “Concerto di Aranjuez”, versione chitarra di Paco de Lucia che ci ha appena lasciato: pezzo struggente ma non funebre, Miles Davis disse che è talmente forte che bisogna suonarlo piano e più lo suoni piano più è forte. Sembra la definizione avant la lettre del tiki taka, che è un punto di vista e una filosofia: la deterrenza del piccolo contro il grande, del debole contro il forte. Soffocare l’avversario, lentamente, fino a stritolarlo letteralmente mantenendo più tempo possibile la palla con una rete fitta, estenuante, di passaggi all’indietro, in orizzontale, da una parte all’altra del campo, fino a che si trova il pertugio, il corridoio per l’affondo che uccide. Verticale. Roba che col tempo ha cambiato forma, è evoluta, ma è grosso modo nata in Olanda, nella testa di Rinus Michels, ripresa e sviluppata da Arrigo Sacchi, portata a un integralismo parossistico da Pep Guardiola nel Barcellona, il club più vincente al mondo degli ultimi dieci anni. Quelli che l’importante è correre un metro in più dell’avversario e voler tenere la palla è una fregnaccia, quello che conta è buttarla dentro, non lo hanno mai sopportato. E gli spettatori degli stadi, Nou Camp a parte, loro hanno voglia più di sangue e folate più che di reticoli geometrici.

 

Eppure questo modo ossessivo compulsivo di giocare ci ha salvato tutti da una brutta deriva. Non sarebbe stato un bel calcio quello in cui uno, soltanto perché alto e mette paura da quanto è atletico e magari sa fare piroette e numeri da circo viene battezzato trequartista da tecnici che si definiscono pragmatici e in realtà sono solo subalterni al mainstream podistico muscolare del momento. Il calcio correva il rischio di diventare attività per umani estremi, come il football americano, il basket: dove se non hai tra i novanta e i centotrenta chili di muscoli, se non fai i cento metri in poco più di 10 secondi, se non sei alto almeno due metri con apertura di braccia conseguente, non sei nessuno. Ecco, la Spagna è stata alfiere di una grande rivoluzione conservatrice che ci ha riportato al senso delle origini del gioco, a una miscela di cervello e piedi di uomini normali. Ci ha restituito il mondo in bianco e nero in cui vediamo i campioni immortali del passato “involarsi” a rete con la stessa languida lentezza con cui si va su e giù il sabato pomeriggio sotto i portici. Aggiungendoci lampi di adrenalina da PlayStation.

 

Così tutto torna al suo giusto posto nella gerarchia dei valori, l’organizzazione e il talento. Noi che talento non abbiamo e perciò dobbiamo credere molto di più nell’organizzazione, noi dal passo si fa per dire felpato, noi che volentieri tiriamo il fiato indugiando sulle anche, noi stortignaccoli, nani o giù di lì, noi lombo cadenti e pingui, noi tutti dobbiamo essere grati alla Spagna.

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  • Lanfranco Pace
  • Giornalista da tempo e per caso, crede che gli animali abbiano un'anima. Per proteggere i suoi, potrebbe anche chiedere un'ordinanza restrittiva contro Camillo Langone.