Direzione e cannibalizzazione

Chi pesa e chi no nella nuova cartina del Regno dem. renziano

Claudio Cerasa

Roma. I numeri, prima della tattica. Questa sera quando Matteo Renzi ritornerà dalla Cina e proverà a partecipare intorno alle 19 alla direzione del Partito democratico dovrà affrontare un’unica vera questione legata al futuro del suo Pd.

I numeri, prima della tattica. Questa sera quando Matteo Renzi ritornerà dalla Cina e proverà a partecipare intorno alle 19 alla direzione del Partito democratico dovrà affrontare un’unica vera questione legata al futuro del suo Pd: cosa inventarsi per far digerire a un partito a vocazione assembleare e a vocazione collegiale l’avanzata inarrestabile di una sostanziale monarchia democratica? E insomma: come possono coesistere senza entrare in rotta di collisione il PdR (il Popolo di Renzi) e il Pda (il Partito dell’apparato)? Molto degli equilibri futuri del Partito democratico dipenderà dalle alleanze che il presidente del Consiglio sceglierà di cementare ridisegnando la cartina del partito, assegnando la carica di presidente (sabato), rimescolando gli ingredienti della segreteria (prossima settimana) e affidando il ruolo di commissario italiano per l’Unione europea (metà luglio).

 

Seguire la geografia del Partito democratico – oggi che il governo è di fatto un monocolore del Pd, oggi che il 40 per cento ottenuto da Renzi alle elezioni spinge il presidente a governare non per poco tempo e oggi che di fatto molti alleati del Pd sono più renziani di molti esponenti dello stesso Pd – è utile per capire su quali perni insisterà il presidente del Consiglio per cercare sponde utili per muoversi alla Camera e soprattutto al Senato. I gruppi parlamentari, si sa, riflettono ancora equilibri di un congresso precedente (era Bersani-Letta, medioevo) e Renzi, nonostante la forza immagazinata alle europee, di fronte a ogni riforma sarà costretto a scendere a compromessi con il suo Pd (i renziani puri, in fondo, sono sempre una sessantina, tra Camera e Senato). In questo senso la partita delle nomine è decisiva per comprendere il peso delle correnti del Pd. E se ormai l’alleanza con Dario Franceschini è così solida al punto che il ministro della Cultura ha scelto di sospendere le attività della sua corrente (Area Dem) offrendo, in segno di dedizione, tutte le sue truppe (75 tra deputati e senatori) al presidente del Consiglio, d’altra parte, nel vecchio corpaccione rosso del Partito democratico, si trovano due galassie in competizione tra loro che hanno un peso diverso nell’universo renziano. La prima, la più consistente ma la meno importante e la più disomogenea, è quella guidata da Roberto Speranza, che tra Camera e Senato può contare su una truppa di 130 parlamentari (30 senatori, 100 deputati, qui la contabilità la tiene Nico Stumpo). La seconda, meno consistente ma più pesante, che gode di un rapporto privilegiato con Renzi, è quella guidata da Matteo Orfini e da Andrea Orlando: conta su 54 parlamentari (40 deputati, 12 senatori), è la corrente con cui Renzi ha triangolato più a lungo durante la partita delle nomine delle società partecipate. E salvo sorprese dovrebbe essere questa la corrente più premiata sia nella nuova segreteria del Pd sia nella prossima presidenza del partito (Matteo Orfini è uno dei candidati, gli altri sono Nicola Zingaretti, difficile, e Paola De Micheli, possibile; ma la Cina potrebbe aver offerto a Renzi altri spunti di marketing politico). Nel grande rimescolamento democratico un peso, un giorno, potrebbe averlo anche l’area legata a Civati (12 deputati e soprattutto 8 senatori, che sommati al gruppo di Chiti e a quello dei grillini usciti dal 5 stelle a Palazzo Madama arrivano a quota 40).

 

[**Video_box_2**]Lo scudo del sostegno di Forza Italia I numeri contano perché la durata della legislatura dipenderà dal grado di fedeltà che avranno i gruppi nei confronti del presidente del Consiglio. Ovviamente, fino a che Forza Italia garantirà il suo appoggio alle riforme (i fedelissimi guidati da Denis Verdini sono 25) il ruolo delle correnti del Pd sarà meno importante ma avrà comunque un peso specifico nella partita delle riforme istituzionali e soprattutto della legge elettorale. Tutti dunque oggi assicurano fedeltà al rottamatore. Il percorso sembra in discesa. Ma Renzi non si fida. Poco prima di partire per Vietnam e Cina ha confessato ai collaboratori che per non correre il rischio di essere strangolato dai gruppi democratici dovrà far approvare entro settembre la nuova legge elettorale. E nonostante l’ampio consenso registrato alle europee il presidente del Consiglio non esclude che il prossimo anno possa essere buono per andare a votare, anche con un Italicum dimezzato. Le truppe sono dunque in movimento. I renziani della terza e della quarta ora si moltiplicano. E intanto i diversamente renziani si guardano attorno sconsolati: con l’aria di chi sa che stare troppo vicino al segretario del Pd rischia di aiutare l’ex sindaco a portare avanti il processo di cannibalizzazione ma anche con l’aria di chi sa che alternative non ci sono, e che nella nuova geografia del Pd ciò che conta sarà dare una cornice democratica alla monarchia del presidente del Consiglio.

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.