
Festa con Rasputin
I simboli contano. Gerhard Schröder abbracciato da Vladimir Vladimirovic Putin, di questi tempi, è un’immagine fantastica di per sé. Ma senza il contesto simbolico vale poco: in fondo l’ex cancelliere tedesco è un collaboratore o consulente o dipendente del capo della Russia (la Russia non ha leader eletti ma solo “capi amati” oppure odiati) Schröder presiede il consiglio di sorveglianza di una società energetica colossale ed è retribuito per questo da molti anni, da quando lasciò la politica attiva in Germania sconfitto da Angela Merkel.
I simboli contano. Gerhard Schröder abbracciato da Vladimir Vladimirovic Putin, di questi tempi, è un’immagine fantastica di per sé. Ma senza il contesto simbolico vale poco: in fondo l’ex cancelliere tedesco è un collaboratore o consulente o dipendente del capo della Russia (la Russia non ha leader eletti ma solo “capi amati” oppure odiati) Schröder presiede il consiglio di sorveglianza di una società energetica colossale ed è retribuito per questo da molti anni, da quando lasciò la politica attiva in Germania sconfitto da Angela Merkel. L’abbraccio è reso da una fotografia seminotturna scattata a San Pietroburgo, città in cui la luce si rabbuia a ore sempre più tarde con il progredire della primavera. I due sono sulla strada, circondati dalle facce e dalle spalle quadrate della sicurezza. Schröder sorride nella serata di festa per i suoi settant’anni, del capo amato si vede solo la nuca, e l’intrico affettuoso delle loro braccia al collo è incorniciato da una boiserie che s’intuisce imponente: è il portone di ingresso di un palazzo, e oltre il vetro, illuminato con discrezione per accogliere gli invitati alla festa si staglia lo scalone di un ingresso con un sospetto di stucchi barocchi.
E’ il palazzo del principe Feliks Feliksovic Jusupov. Nella mia prima passeggiata a San Pietroburgo, dieci giorni fa, ho raggiunto al mattino, immerso in un sole napoletano, il teatro Mariinsky. Ci sono arrivato dall’Hotel Angleterre, lungo la via dei Decabristi, e al ritorno ho costeggiato il canale Moiki mettendo un piede davanti all’altro sul marciapiede di granito che è parte della massicciata costruita da Pietro il Grande ai primi del Settecento con il lavoro forzato di migliaia di russi impiegati a costruire la città “premeditata”, come diceva Dostoevskij. Il palazzo Jusupov mi è sfilato davanti come per caso, e quella boiserie era notevole all’occhio, e gli interni li ho trovati da favola, la solita piccola Versailles dell’aristocrazia zarista, ma con una punta di kitsch che in quei casi è il culmine dell’eleganza. Sale blu, rosse, turchesi, affreschi, quadrerie, muri dipinti ad acqua, tapisserie, papier painte, mobilia e legni di intarsi squisiti, harmonium, fortepiano, baldacchini, scrivanie, trumeau, sculture neoclassiche, un teatro smagliante di ori, sale da concerto e da ballo, cori a cappella per il turista nuovo principe del bric-à-brac.
[**Video_box_2**]Del padrone di casa sapevo quel che sanno più o meno tutti. Era un cortigiano di rango di Nicola II, l’ultimo zar prima della Rivoluzione russa. Amava travestirsi, adorava la mammina, il gusto orientalista lo faceva sentire un sultano tra gli ospiti e le dame di corte, era un temperamento scherzoso e dispettoso. In una sala del palazzo Jusupov aveva con i suoi servi cercato di avvelenare Grigorij Rasputin, un monaco alto due metri e massiccio assai, che non voleva saperne di morire. Lo avevano bollato come influente maneggione in grado di orientare le mosse della zarina e di ricattarla prestando la sua opera di taumaturgo in favore della salute malferma dello zarevic Alessio. E siccome non voleva saperne di morire, dopo il veleno lo avevano accoltellato, e poi gli avevano sparato, e alla fine della meravigliosa e carismatica agonia avevano gettato il suo immenso corpo nel canale. Mi sono domandato se i cento ospiti della festa di Putin per il caro amico Gerhard abbiano potuto accedere anche alla stanza in cui avvenne l’avvelenamento. E ho pensato che, celebrato in quel palazzo, il compleanno del tedesco che ha salvato e rilanciato la Germania con le sue riforme economiche, per poi darsi in affitto petrolifero ed energetico al potente capo amato, doveva essere stato la più sontuosa, solenne e beffarda celebrazione del potere oggi immaginabile nel mondo occidentale, con un occhio eurasiatico all’oriente.
Il caso ha voluto che dieci giorni dopo, al termine del mio breve e modesto soggiorno musicale e architettonico a San Pietroburgo, “Peter” per gli amici e i conoscitori, dopo aver macinato chilometri anche nel quartiere Smolny della vecchia Leningrado sovietica, tra busti di Lenin e sacrari dedicati alla dittatura del proletariato, io sia incappato in un’altra scenetta deliziosa. Era domenica scorsa, un giorno prima della festa, e sul marciapiede di una via preziosa che porta alla Cattedrale di Sant’Isacco, tra un palazzo dell’architetto Rossi e uno ristrutturato da Quarenghi, una piccola folla di teste quadrate della sicurezza sostava davanti a un portone. Sbirciando dentro, si vedeva il diamante metallico, con le sue insegne, della sede di rappresentanza di Gazprom, la casa madre del colosso presieduto da Schröder. C’era un fervore organizzativo nell’aria, erano i preparativi dell’incontro, dell’abbraccio, della visita di Vladimir Vladimirovic all’amico di Germania. L’ho capito dopo, rientrato a Roma in tempo per vedere la fotografia dell’abbraccio, e il profilo dell’auto presidenziale da cui Putin era uscito appena, davanti al palazzo del principe Jusupov, con la bandierina e lo stemma imperiale dell’aquila bicipite. I simboli, appunto.


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