Il crepuscolo dell'impero americano tradito da Venere

Non è per uno scherzo dell’età che Donald Kagan parla con la stessa urgenza dell’annessione russa della Crimea (2014), del trattato di Versailles (1919), della caduta del Muro di Berlino (1989), della spedizione ateniese in Sicilia (415 a. C.),  della fine della Seconda guerra mondiale (1945) e di altre vicende sparse nel tempo e nello spazio. L’occhio del classicista si spinge oltre l’orizzonte del contingente, fissandosi su quella che con un certo grado di compassione chiama la “condizione umana”, un meraviglioso e inquietante coacervo di elementi spuri mosso da interesse, potere, razionalità, passioni, volontà, tendenze virtuose e ricadute nel vizio, eternamente alla ricerca ed eternamente depistato.

    Non è per uno scherzo dell’età che Donald Kagan parla con la stessa urgenza dell’annessione russa della Crimea (2014), del trattato di Versailles (1919), della caduta del Muro di Berlino (1989), della spedizione ateniese in Sicilia (415 a. C.),  della fine della Seconda guerra mondiale (1945) e di altre vicende sparse nel tempo e nello spazio. L’occhio del classicista si spinge oltre l’orizzonte del contingente, fissandosi su quella che con un certo grado di compassione chiama la “condizione umana”, un meraviglioso e inquietante coacervo di elementi spuri mosso da interesse, potere, razionalità, passioni, volontà, tendenze virtuose e ricadute nel vizio, eternamente alla ricerca ed eternamente depistato. Spesso dalle sue stesse orme. E’ nelle leggi dell’agire umano che il professore emerito di Yale, autore di una monumentale storia della Guerra del Peloponneso in quattro volumi, trova il chiavistello universale per aprire le serrature della geopolitica, che non è altro che il precipitato dei rapporti fra gli uomini su scala globale. Cambiano le condizioni, gli interpreti, gli oggetti specifici del contendere e i modi di affrontarsi, non le regole generali che determinano i rapporti di forza, il ricorso alla guerra e il mantenimento della pace. Tucidide, di cui Kagan parla come di un suo vecchio insegnante del ginnasio, diceva che gli uomini fanno la guerra per i soliti, antichi motivi: onore, paura e interesse. Kagan guarda l’aggressività della Russia di Vladimir Putin e non trova che conferme alla saggezza greca: la ricerca di influenza (più che di territori) corrisponde a quella massimizzazione del potere che è pulsione basilare dell’agire umano.

    Come per Tucidide, le forze che muovono la storia secondo Kagan non hanno tratti soprannaturali né connotazioni mistiche, sono il frutto di umanissima razionalità e altrettanto umana assenza di razionalità. Non c’è un destino scritto nel cielo che anela di compiersi quando si tratta della dominazione delle cose del mondo, nemmeno per l’America che per il professore è l’attore che meglio può garantire il massimo scopo perseguibile nelle relazioni internazionali: il mantenimento della pace. Kagan è studioso della classicità e pater familias di una dinastia conservatrice. Robert Kagan è l’intellettuale neocon che all’inizio della guerra al terrore condensò la cruciale differenza fra l’America che viene da Marte e l’Europa da Venere, e di recente ha scritto un saggio, “The World America Made”, che con piglio analitico sostiene che l’America non ha affatto perso la sua posizione dominante nel mondo. Esibendo la consueta abilità di calcolo, anche Barack Obama è riuscito con una piroetta a saltar sul carro degli avvocati della forza americana elogiando furbescamente lo scritto dell’intellettuale di “Paradiso e Potere” (Mondadori). L’altro figlio, Frederick, è un analista militare che assieme alla moglie Kimberly ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione del surge iracheno assieme al generale David Petraeus – poi risucchiato via da un riflusso sospetto della storia – inizio di un’epopea bellica densa di implicazioni culturali e persino latore di una visione del mondo.

    L’82enne nato in uno shtetl della Lituania e trasferitosi a due anni in un quartiere di Brooklyn di nome Brownsville, noto per aver provveduto all’educazione di Mike Tyson e per una tenace resistenza alla gentrificazione dilagante, incontra il Foglio nella sede dell’Elizabethan Club, società nobile di Yale senza l’allure cinematografica degli Skull & Bones, dove sono interdetti gli strumenti elettronici più avanzati di un orologio da polso. Quando si tratta di Kagan i custodi dell’ortodossia luddista si mostrano tuttavia assai indulgenti. La conversazione parte da una dichiarazione crepuscolare sulla dominazione americana che giusto un anno fa, in occasione del suo commiato ufficiale dalla cattedra, il professore ha affidato al Wall Street Journal: “Siamo immersi in una cultura che rende difficile per noi agire razionalmente quando essere duri è la cosa razionale da fare. Possiamo farlo quando siamo spaventati a morte e non ci sono alternative. Quando è il momento di chiudere i conti, molto spesso sgattaioliamo via”. Sgattaioliamo via è sintesi piuttosto cruda dell’agire e del non agire dell’America sotto l’egida di Obama, presidente di linee rosse non rispettate e di severe telefonate di rimprovero agli avversari, ma il professore legge il neoisolazionsmo obamiano come il sintomo di un male profondo che abbisogna di analogie più larghe per essere opportunamente diagnosticato: “Vedo molte somiglianze fra come gli americani hanno reagito alla Prima guerra mondiale e quello che sta succedendo oggi. Non c’è stato nulla di simile nella storia americana. La gente ora dice che prima della Grande guerra l’America era isolazionista, ma non è vero, il suo potere e la sua influenza di fatto rendevano superflua qualunque riflessione critica sul tema. Di certo è stata profondamente impegnata in una serie di questioni internazionali per tutto il XIX secolo quando si trattava di difendere gli interessi americani. Quando siamo entrati nella prima guerra mondiale l’America era un potere globale impegnato direttamente su una molteplicità di fronti. Pensiamo a Teddy Roosevelt che lavorava per risolvere le dispute europee e prima ancora aveva contribuito a risolvere la guerra russo-giapponese. Il presidente partecipava alle discussioni postbelliche, il che era il riflesso del ruolo americano nel mondo. Adesso esagero, ma credo che senza l’intervento dell’America la Prima guerra mondiale non sarebbe mai finita. E’ un’iperbole che uso per sottolineare che l’America è stata la nazione decisiva per l’andamento della Grande guerra. Quello è stato il momento determinante, il culmine di un atteggiamento di engagement che era già presente nell’approccio americano all’ordine globale. Un investimento del genere, uno poteva pensare, sarebbe risultato in una partecipazione anche maggiore degli Stati Uniti nel determinare quello che sarebbe successo dopo. Sarebbe stato un passo naturale. Invece c’è stato un repentino cambiamento di approccio. La verità è che per l’America era ormai impossibile a quel punto ritrarsi completamente, ma la questione era se sarebbe rimasta come attore attivamente impegnato nel determinare lo scenario globale, con la coscienza del suo ruolo nel mondo e dei costi che questo avrebbe comportato. L’America ha scelto quello che chiamano isolazionismo, ma non era nemmeno un effettivo isolazionismo, era un atteggiamento ambiguo: da una parte continuavamo a difendere i nostri interessi nel mondo, dall’altra non eravamo attivamente coinvolti nella costruzione di un nuovo ordine. Il rifiuto di entrare nella Società delle Nazioni non era predeterminato né era l’esito naturale degli eventi. Fu uno strappo. All’origine di questo strappo c’è una disputa politica domestica. Quelli che si sono messi contro Wilson e la Società delle Nazioni erano gli stessi che avevano invocato un coinvolgimento più stretto degli Stati Uniti nelle questioni internazionali.

    Ma erano repubblicani e odiavano Wilson, avrebbero votato qualunque cosa pur di dargli contro. Il risultato di questo è che negli anni Venti e Trenta del Novecento l’atteggiamento degli Stati Uniti nel mondo è stato una disgrazia. Il governo non aveva una politica estera. L’unica idea era convincere gli alleati a ripagare i debiti di guerra, e questi per farlo dovevano rivalersi sulla Germania, e ciò inevitabilmente ha avuto poi un certo peso nell’ascesa di Hitler. Ma il punto è che siamo diventati isolazionisti dopo la guerra cambiando corso rispetto alle decisioni precedenti. Molti dicono che semplicemente siamo tornati all’atteggiamento naturale americano, ma non è affatto così”.

    L’America è strutturalmente connotata da un atteggiamento ambivalente verso ciò che succede nel mondo. Il popolo americano “ha una tendenza naturale a occuparsi degli affari di casa propria, a non prestare attenzione al resto del mondo”, dice Kagan, per questo è necessaria una “leadership attiva” anche soltanto per mantenere lo status quo. Nel libro “On The Origins of War” sostiene che intraprendere guerre e mantenere la pace sono attività che richiedono un identico esborso di energia, e gli americani lo hanno imparato durante e soprattutto dopo la Seconda guerra mondiale, fase che Kagan mette radicalmente in opposizione all’oggi multipolare, aggettivo potabile per descrivere un mondo non più a trazione americana. “Tutto è cambiato quando i giapponesi hanno attaccato Pearl Harbor. Non c’è stata alcuna resistenza all’ingresso in guerra: l’America ci si getta a capofitto e vince. A quel punto è inevitabilmente implicata direttamente in tutti gli scenari globali, ma l’aspetto fondamentale è che ha deciso di continuare a guidare lo scenario anche dopo la fine della guerra. La costruzione del nuovo ordine mondiale è un prodotto della volontà americana, non della necessità del momento.

    Quello che è successo dal 1945 a oggi è una delle cose più incredibili della storia umana. Vado con la mente fino al V secolo a. C. e non riesco a trovare nessun periodo della storia in cui qualcosa di simile è successo: un mondo in cui un potere soltanto ha dominato militarmente, economicamente e diplomaticamente. Nessuno lo aveva fatto prima”. Accanto alla reazione imperiosa, marziale a una minaccia contingente c’è la volontà inflessibile di creare sulle macerie un ordine duraturo. E gli ordini duraturi non si reggono su vittorie episodiche, ma si coltivano con sforzi costanti. Se c’è uno spettacolo che deprime questo professore affabile con proverbiale sguardo sghembo e un senso dell’umorismo che è un’arma contundente è il difetto della volontà americana. “Certamente – continua Kagan – senza l’emergere della minaccia comunista l’America avrebbe potuto cadere nello stesso errore commesso alla fine della Grande guerra. Il fatto è che è immediatamente diventato chiaro che il comunismo era una minaccia esistenziale, nessun presidente e nessun Congresso avrebbe potuto ragionevolmente ritrarsi. Fra il 1945 e oggi il nuovo ordine mondiale è dominato da una sola potenza, ma sostenuta da una serie di alleati profondamente concordi nella visione morale e strategica incarnata dall’America. Questo ha permesso un risultato che trovo miracoloso: sconfiggere il comunismo senza una guerra. Sei troppo giovane per ricordartelo, ma tutti prevedevano che prima o poi ci saremo fatti saltare in aria a vicenda o si sarebbe arrivati a un apocalittico conflitto armato, e non è successo”.

    Il problema è venuto dopo il crollo dell’Unione sovietica, quando si è affermata una visione da “fine della storia” secondo cui il mondo si sarebbe naturalmente allineato al paradigma delle democrazie liberali d’occidente. Improvvisamente è sembrato che non ci fosse più bisogno della volontà americana di mantenere la stabilità: “Ci siamo ritrovati con un mondo ancora nelle mani dell’America, ma con l’America che doveva dimostrare di avere la volontà di essere quello che era stata dal 1945 fino a quel momento”. Qualche anno fa il figlio Robert ha scritto un libro sul fallimento dell’impostazione neohegeliana di Francis Fukuyama intitolato, appunto, “Il ritorno della storia e la fine dei sogni” (Mondadori). Qui però siamo oltre la teoria di Fukuyama, “che era ampiamente accettata come ipotesi interpretativa del potere globale”, spiega Kagan. “Obama è il primo presidente ad avere agito secondo quella visione. Non solo parla quel linguaggio, ma lo pratica, è la sua visione. ‘Non è un grosso problema’ potrebbe essere il suo motto di politica estera. Credo che questa Amministrazione sia profondamente diversa dalle altre. Anche nel governo di George W. Bush si notava un leggero spostamento dall’idea della responsabilità globale, ma è leggero. Poi con l’attentato alle Torri gemelle c’è stata una grande confusione e una certa mancanza di concentrazione sul nostro ruolo, ma Obama rappresenta una rottura drastica. Se prendiamo tutto quello che ha detto nella sua carriera e soprattutto quello che ha fatto da quando è alla Casa Bianca è chiarissimo il suo progetto, ed è terribilmente simile a quello che l’America ha fatto nel 1918. Vuole dire al mondo di andare pure per la sua strada, in modo che lui possa occuparsi di quelli che, a mio avviso, sono grandi, enormi cambiamenti del carattere nazionale americano, perché semplicemente non si riconosce in quello che l’America è stata ed è. E’ una questione più profonda del solito confronto fra destra e sinistra, democratici e repubblicani. Ha chiaramente obiezioni strutturali rispetto alla stessa identità americana, e agisce di conseguenza. Vuole essere libero dalle incombenze della politica estera per concentrarsi sulle riforme qui. Prima lo ha fatto in modo più silenzioso e circospetto, ora esplicitamente dice che quello che succede nel mondo non è affar nostro, che non  ce lo possiamo permettere, che uccidono i nostri uomini al fronte, tutto per non ammettere la vera ragione del disimpegno: avere le mani libere”.

    Risuona nell’analisi un’eco delle battaglie della sinistra radicale, movimento antiamericano che è all’origine della svolta conservatrice di Kagan: insegnava alla Cornell University nel 1969 quando l’università ha chinato il capo di fronte a un gruppo di studenti afroamericani armati che avevano occupato il campus. Kagan si è unito alla controprotesta di uno sparuto gruppo di professori non allineati guidati dal suo amico Allan Bloom, intellettuale e classicista che in “The Closing of the American Mind” fissò il paradosso della cultura accademica americana: l’apertura del relativismo conduce alla massima chiusura della mente. “La sinistra estrema – dice Kagan – ha sempre detto che qualunque cosa succedesse nel mondo era colpa nostra, delle nostre prevaricazioni, del fatto che non badavamo agli affari nostri come avremmo dovuto. Obama è un erede naturale di quella mentalità.

    Questo coincide poi perfettamente con il fatto che un engagement all’estero lo distrarrebbe dai suoi propositi rivoluzionari in patria, cosa che non può assolutamente permettere”. C’è una linea ideologica nemmeno troppo sottile che lega il ritirismo geopolitico al ripiegamento culturale sui dettami del politicamente corretto. Il professore sfoggia una statistica a braccio: “Per anni ho chiesto ai miei studenti di nominare tutti i professori di Yale che conoscevano che avevano un’opinione diversa dal consenso prevalente. Anni fa ne citavano una decina, magari quindici, su un corpo docenti di sei o settecento professori. Negli ultimi tempi sono diventati uno o due al massimo. In un contesto del genere capisci che non siamo, culturalmente, nel 1945”.

    [**Video_box_2**]Due sono le condizioni per fermare questo inizio di “ritiro da ciò che è necessario per preservare questo straordinario ordine mondiale”. Primo: “L’America deve mantenere e alimentare la sua supremazia economica e militare”. Secondo: “Deve rinnovare la volontà di guidare questo ordine mondiale. I tagli al budget del Pentagono e l’indulgenza sulle condizioni di spesa militare necessarie ai membri per rimanere nel quadro della Nato sono testimonianze più fedeli delle formule retoriche sulla “freedom is not free” che Obama ha snocciolato proprio alla sede dell’Alleanza atlantica il mese scorso.

    La seconda condizione, la volontà, “è completamente svanita”, e il professore fa leva su un episodio rivelatore: “Obama nel 2009 doveva decidere di mandare un nuovo contingente in Afghanistan, come richiesto dai militari. Ha aspettato e aspettato, e infine ha ordinato un aumento di truppe minore di quello richiesto ma, e questo è anche più grave, nello stesso momento in cui ha preso la decisione ha annunciato che una volta compiuta la missione i soldati sarebbero rientrati. Ora, questo è un deliberato sabotaggio, perché chi capisce qualcosa di strategia, e in questo caso basta avere compiuto sei anni, sa che tutto il problema è convincere il nemico che è spacciato, non può vincere. Uno dei modi per farlo capire è essere pronti a dispiegare le forze, così il nemico almeno cercherà di trovare un accordo per salvarsi dalla più grande potenza militare del mondo. Ma se l’idea è dire ‘ehi, fra l’altro giovedì sera ce ne andiamo’ è la fine. Obama ha sabotato il suo stesso piano. Nessuno può convincermi che sia stato un atto di ignoranza. Politicamente aveva bisogno di dare l’impressione che stesse facendo qualcosa, ma voleva essere certo che il suo tentativo fallisse”.

    Ora il fallimento della stabilità americana è arrivato sul confine dell’Europa occidentale, e l’avversario nella competizione a lungo termine è quella Russia che l’ultimo avversario elettorale di Obama, Mitt Romney, citava come fonte primaria di pericolo per l’America fra le risate grasse dei democratici. Tendono a ridere meno, di recente, e a produrre piuttosto accigliate tirate anti Putin che per il professore sono il massimo dell’ipocrisia liberal: “Putin è confortato e legittimato nelle sue decisioni sull’Ucraina esattamente da quello che l’America guidata da Obama ha fatto, anzi non ha fatto prima. In Siria ha dichiarato nei fatti di essere un codardo. Vogliamo parlare della Libia? Un fallimento della volontà e un fallimento in generale. Non dobbiamo dimenticare poi l’Iraq, un successo incredibile degli americani, che potevano avere un alleato indipendente per tenere a bada l’Iran. Obama è responsabile per quello che è successo in Iraq: non è nemmeno riuscito a fare un accordo con il governo iracheno sulla permanenza delle forze americane dopo la data del ritiro. Tutto quello che il generale Petraeus e compagnia avevano fatto lui lo ha distrutto”.

    Che fare, dunque? “Ora occorre innanzitutto sottolineare la solidarietà a livello Nato e la natura militare dell’alleanza. Dovrebbero fare esercitazioni militari e dispiegare forze in aree strategiche per dimostrare che siamo pronti a usare la forza se la Russia continua a provocare. Non lo faranno, ma a quel punto la nostra debolezza non avrà più scuse”. Se il professore è duro con l’America guidata dal sedile posteriore, sull’Europa ha posizioni simili a quelle della nuora, Toria Nuland, sottosegretario del dipartimento di stato sorpresa a pronunciare in una telefonata privata le ineffabili parole: “Fuck the Eu”. “L’Europa è pietosa – dice Kagan – il welfare state, e questo è sempre più vero anche in America, l’ha depredata della capacità di pensare chiaramente e criticamente a qualunque cosa. Non è disposta a fare sacrifici di nessun tipo per qualsiasi scopo. Si aspettano soltanto di ricevere qualcosa dallo stato. Poi c’è da dire, e questo è comprensibile, che qualunque cosa assomgili vagamente a una guerra ripugna profondamente agli europei, che hanno sofferto in modo indicibile nel Novecento. Diventa difficile convincere gli europei a combattere qualcuno o a difendere un ideale. Gli europei hanno sempre visto la Nato come lo strumento con cui gli Stati Uniti li avrebbero protetti, e la cosa ha funzionato molto bene a lungo, ma poi si è affievolita. Credo però che il comportamento della Russia stia cambiando questo approccio. Siamo soltanto all’inizio, e la Russia non è ancora abbastanza potente per rappresentare una minaccia chiara e imminente, ma l’aggressività di Putin ha introdotto un senso di paura inedito. Se sono davvero preoccupati dalla Russia e allo stesso tempo si rendono conto che si è rotto quel meccanismo delle relazioni globali per cui se qualcuno tocca un alleato dell’America, l’America è pronta a farlo saltare in aria, allora diventa chiaro che qualcosa deve cambiare nell’assetto del potere mondiale”. Una staffilata va di rigore alle organizzazioni internazionali, “una sciocchezza, una distrazione rispetto alla realtà, offrono un alibi ai governi nazionali per non prendersi responsabilità. Nel migliore dei casi sono inutili, nel peggiore sono un impedimento alla pace”.

    Ma in un certo senso la debolezza che unisce Bruxelles al Palazzo di Vetro è un sintomo del deteriorarsi dell’influenza americana. Un ritiro cosciente ed esplicito che si nutre di proclami di intervento e sanzioni pro forma: “Io mi rifiuto di pensare che l’impostazione delle politica estera di Obama sia frutto di errori di valutazione. E’ pensata così. Vuole fare ciò che vuole: il dramma è che ciò che vuole non include ciò che è necessario. C’è un divario fra la volontà politica di Obama e le necessità imposte dalla realtà. Sulla scena internazionale fa sempre e soltanto il minimo indispensabile per evitare di risultare ridicolo. Appena passata questa soglia si ritrae”.

    Le nazioni che vogliono contribuire a mantenere la pace, invece, “devono essere pronte a dispiegare una forza preponderante rispetto agli avversari e dimostrare di avere la volontà di usarla, se necessario”. Kagan, mente abituata a non soffermarsi sulle cose penultime, mette lo spettacolo poco edificante della debolezza occidentale sullo sfondo di una crisi antropologico-culturale la cui chiave è la “parte soffice del cristianesimo”. “C’è un aspetto problematico nel cristianesimo e per quanto la secolarizzazione avanzi, il cristianesimo non si può sradicare dalla mentalità occidentale. Il punto è questo: la figura di Gesù che predica il sermone della montagna, un insegnamento così utopico che se non fosse così serio e ammirevole sarebbe ridicolo. Il suo potere persuasivo è enorme, chiunque sia cresciuto nella cultura occidentale se lo ritrova da qualche parte nel cuore e nella mente. E’ ammirevole, dicevo, ma è l’opposto di come le cose vanno nel mondo. Non si può eliminare il fatto che gli uomini agiscono virtuosamente in certi casi, ma nelle cose più importanti altre motivazioni prevalgono. Il potere e l’egoismo tendono a dominare le cose umane. Dunque, cosa fanno gli uomini quando hanno questa promessa enorme nel cuore ma allo stesso tempo devono venire a patti con il mondo? L’occidente ha al suo interno questa terribile e affascinante contraddizione. L’islam in questo senso ha un vantaggio filosofico enorme, perché non c’è contraddizione fra la sua visione antropologica e la dominazione politica e militare. C’è sempre un senso di colpa nell’occidente che deriva dalla sproporzione fra l’ideale enunciato nel sermone della montagna e la realtà dei poteri che determinano l’andamento del mondo. L’ideologia comunista ha tratto enormi benefici dalla parte soffice del cristianesimo, anche se era anticristiana. Potevano sempre dire: perché non ami il tuo prossimo? Perché non porgi l’altra guancia?”.

    Perché il fondamentalismo islamico non ha assunto la stessa funzione storica di sveglia della coscienza dell’occidente che ha avuto la minaccia comunista? Sono passati quasi 13 anni dall’11 settembre e l’America sembra aver esaurito la sua forza... “E’ verissimo”, dice Kagan, e su questa affermazione nello sguardo brilla per un attimo la malinconia di chi si scopre accampato sul versante debole della storia. Ma è solo un attimo, poi riprende il filo dell’analisi: “Il comunismo era una minaccia più credibile, per via del potere militare e delle armi nucleari. Era anche una minaccia filosofica e ideologica che tutto l’occidente poteva riconoscere chiaramente: l’idea di una vittoria dell’Unione sovietica implicava automaticamente la scomparsa di tutto quello in cui gli americani credevano. Fra l’altro era un’ideologia profondamenta antireligiosa, quindi intimamente contraria all’idea prevalente in occidente, soltanto un idiota non avrebbe riconosciuto che erano nemici dell’occidente. La principale ragione per cui l’islam non è diventata una minaccia analoga credo sia nel suo potere limitato. Non è così credibile. Il comunismo era anche a livello popolare l’incarnazione di tutto ciò che di male ci poteva essere, mentre la gente conosce poco la cultura islamica, e il politicamente corretto impedisce di muovere anche la minima critica all’islam”.

    Su certi garage di New York – breve inciso: baseball a parte, poche cose emozionano il professore quanto la sua città, che ha lasciato nel 1959 – si può trovare la fatidica scritta “don’t even think of parking here”, l’espressione che ha ispirato la regola aurea di Kagan in politica estera: “Non pensare nemmeno di usare la forza. Perché se la usi veniamo e ti schiacciamo”. Serve però una certa moral clarity per mettere in pratica questa regola, no? “In un certo senso no – risponde Kagan – perché per giustificare una leadership muscolare basterebbe soltanto l’argomento realista: l’obiettivo supremo per l’occidente è preservare la pace e non dovremmo lasciare che nulla ci distragga da quell’obiettivo. Come lo raggiungiamo? Preparandoci ad agire. Non mi sfugge che la maggior parte del mondo non è d’accordo con questa prospettiva, ma mi chiedo: qual è l’alternativa? Raccontatemi una versione dei fatti più credibile e sono pronto a cambiare idea, ma di versioni più credibili non ne sento”.
    Nella stagione della guerra al terrore le ragioni di Kagan e dei suoi sodali neoconservatori si sono spesso sovrapposte a quelle degli interventisti liberal, che da sinistra invocavano l’intromissione americana per ragioni umanitarie, ma la situazione in Siria è l’emblema di un sostanziale scollamento delle prospettive. Gli interventisti liberal dell’Amministrazione, a partire da Samantha Power, sono una nicchia molto considerata ed elogiata a parole ma inascoltata quando si tratta di prendere decisioni: “Per me è un fatto di convenienza diffondere i nostri valori, perché le nazioni che aderiscono al nostro modo d’intendere il mondo tendono a essere amichevoli nei nostri confronti. E’ un’idea moralmente e praticamente vantaggiosa, ma incoraggia l’intervento negli affari interni di altre nazioni. Se uno è interessato, come lo sono io, nella conservazione della pace, questo crea problemi, perché è difficile di volta in volta giudicare se e come è opportuno intervenire. Io sono restio a intervenire automaticamente ogni volta che c’è una terribile violazione dei diritti umani. Credo che altre condizioni vadano soddisfatte. Se la valutazione di un caso specifico ci porta a concludere che la situazione di una certa area non è soltanto terribile in sé, ma rischia di causare problemi a livello internazionale, ascolto volentieri le ragioni di un intervento, perché a quel punto è anche affar nostro. A volte si interviene a volte no, ogni volta è un giudizio separato. Di fronte a un dittatore che maltratta il suo popolo abbiamo il dovere di obiettare e di far sentire la nostra voce, di persuadere ma non automaticamente di intervenire. Capisco che è insoddisfacente, ma così è la condizione umana”.
     

    Nota biografica: Donald Kagan è uno storico dell’antica Grecia e intellettuale conservatore nato in Lituania nel 1932 e cresciuto a Brooklyn. Ha insegnato alla Cornell University e a Yale. La sua opera fondamentale è una storia della guerra del Peloponneso in quattro volumi, e accanto agli scritti accademici ha pubblicato diversi titoli sul ruolo dell’America nel mondo, le origini della guerra e l’eredità occidentale. E’ il padre di Robert e Frederick, uno intellettuale neoconservatore autore di diversi libri fra cui il recente “The World America Made”, l’altro analista militare che durante la guerra in Iraq ha contribuito al concepimento del “surge” guidato dal generale David Petraeus.