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Il trionfo del pregiudizio
Il professor Fiandaca è un asso, un giurista con i fiocchi che si è assunto responsabilità importanti anche come polemista nella vita pubblica tormentata dagli scontri in tema di diritto (a proposito, in bocca al lupo al giurista-candidato per le elezioni europee). Sostiene qui sopra quanto anche noi da tempo andiamo con modestia subgiuridica dicendo. Che la “zona grigia” della complicità con la mafia va colpita con strumenti acconci, che nell’interpretazione del codice, in analogia con altre forme di concorso nel delitto, si usa oggi una nozione di “concorso esterno in associazione di tipo mafioso ex 416 bis” che è piuttosto indeterminata.
Il professor Fiandaca è un asso, un giurista con i fiocchi che si è assunto responsabilità importanti anche come polemista nella vita pubblica tormentata dagli scontri in tema di diritto (a proposito, in bocca al lupo al giurista-candidato per le elezioni europee). Sostiene qui sopra quanto anche noi da tempo andiamo con modestia subgiuridica dicendo. Che la “zona grigia” della complicità con la mafia va colpita con strumenti acconci, che nell’interpretazione del codice, in analogia con altre forme di concorso nel delitto, si usa oggi una nozione di “concorso esterno in associazione di tipo mafioso ex 416 bis” che è piuttosto indeterminata. Fiandaca nota che la polemica in merito dipende anche e sopra tutto dal fatto che si tratta di un tipico delitto concorsuale attribuito prima di tutto ai colletti bianchi, cioè a persone legate al mondo degli affari e della politica. E’ ovviamente il caso di Marcello Dell’Utri, palermitano, immischiato in una rete di relazioni siciliane dall’apparenza solforosa e per questo oggetto da vent’anni di una persecuzione in giustizia, alimentata da una crassa e spesso vile esposizione mediatica, direttamente proporzionale alla sua presenza politica e alla sua vicinanza stretta a Silvio Berlusconi. [**Video_box_2**]Qui finisce il compito del giurista, che pure onestamente si augura una riscrittura dei riferimenti tecnici concreti passibili di attribuire un reato non vago agli indagati e poi imputati in un processo. Qui dovrebbe cominciare ad agire il giornalista libero, lo storico e antropologo della realtà criminale e paracriminale, specie nella variante siciliana, e il cittadino comune che osserva e giudica i fatti. Dell’Utri può essere considerato simpatico o antipatico, prudente o imprudente, coinvolto in relazioni obbligate e diffuse nel suo ambiente oppure non limpide, ma non è questo il punto. Il punto è se abbia consapevolmente giocato un ruolo nel consolidamento e nella costruzione del potere mafioso criminale. Come tutti sappiamo c’è stato un “giudice a Berlino”, e non era un passante ma Francesco Iacoviello, il sostituto procuratore generale nell’udienza di Cassazione in cui la condanna di Dell’Utri fu annullata con rinvio a nuovo appello, il quale ha sostenuto, trovando conferma nella sentenza Grassi, che in quel processo mancava l’oggetto criminale così come esso deve configurarsi nel codice penale. Tanto più chi osservi, fuori dai recinti del diritto, ha diritto di affermare che i rapporti ambientali di un imprenditore palermitano, che poi si trasferisce a Milano e diventa anche un leader politico di primo piano, devono essere esaminati in relazione alla prova effettiva di un sodalizio, di una complicità con le cosche. Non basta alludere a cene, matrimoni, contiguità varie di tipo familiare espresse in molti modi diversi, dazioni che sono state tipiche di parte rilevante dell’imprenditoria concussa, in Sicilia e altrove, per concludere nel senso di un delitto provato. E non è un’osservazione di striscio, irrilevante: si tratta di decidere se ci sia o no un reato di quella gravità, e se un processo di vent’anni lo abbia dimostrato. Con l’ausilio di un reato definito in modo vago, è impossibile escludere il trionfo del pregiudizio.
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