Il putinismo come ideologia

Anna Zafesova

Uno zar incontra un papa. Un incontro semi ufficiale, cortese, ma non privo di dossier delicati: il Pontefice fa un elenco di rimostranze, il sovrano risponde con freddezza di non poter cedere in quanto è custode dell’ortodossia. Salutandosi si scambiano dei doni, e il Papa dice: “Si ricordi che i sovrani esistono per il bene dei popoli e non i popoli per la volontà dei sovrani”. Lo zar scuote la testa, e scrive al ritorno nelle sue stanze: “Le due grandezze passate, quella di Roma e quella del papato, quasi incredibili potenze che furono, sulle cui rovine oggi giocano le ombre cinesi di un potere quasi inesistente, con appena un filo di respiro, portando in se stesso il germe della propria distruzione”.

    Uno zar incontra un papa. Un incontro semi ufficiale, cortese, ma non privo di dossier delicati: il Pontefice fa un elenco di rimostranze, il sovrano risponde con freddezza di non poter cedere in quanto è custode dell’ortodossia. Salutandosi si scambiano dei doni, e il Papa dice: “Si ricordi che i sovrani esistono per il bene dei popoli e non i popoli per la volontà dei sovrani”. Lo zar scuote la testa, e scrive al ritorno nelle sue stanze: “Le due grandezze passate, quella di Roma e quella del papato, quasi incredibili potenze che furono, sulle cui rovine oggi giocano le ombre cinesi di un potere quasi inesistente, con appena un filo di respiro, portando in se stesso il germe della propria distruzione”. Lo zar aveva problemi con la Lituania e la Polonia e stava per imbarcarsi in una guerra in Crimea, e dal Papa voleva una strigliata contro i cattolici che fomentavano il gregge polacco contro i russi. Sul suo interlocutore al Vaticano dirà: “Un uomo onesto e di buone intenzioni, ma che fin dall’inizio voleva troppo accontentare lo spirito del tempo”.

    Lo zar non si chiamava Vladimir, ma Nicola I, venuto in visita privata (ai romani si presenterà come Nikolay Pavlovich Romanov, nobile russo) da Gregorio XVI. Correva l’anno 1845 e l’obiettivo del sovrano russo (entrato nella storia con il soprannome di “Bastone”) era convincere l’Europa ad allearsi contro i fermenti rivoluzionari, “salvare il cristianesimo e soffocare l’idra della rivoluzione nella culla”, spiega Mark Smirnov, vicedirettore della rivista Scienza e religione e autore di un singolare saggio dedicato all’incontro tra Putin e papa Francesco, pubblicato qualche mese fa. La tentazione di tracciare paralleli storici ispirati alla cronaca è ovvia, ma il ragionamento merita attenzione se non altro perché è uno dei pochi segnali che arrivano dal laboratorio intellettuale del putinismo. Un’occhiata oltre la cortina fumogena della propaganda e le esternazioni di politologi di corte, che permette non soltanto di interrogarsi sui meccanismi decisionali e le prossime mosse in uno scacchiere incandescente, ma di aprire uno spiraglio sul sistema di valori e idee che muove un uomo, e il sistema che si è costruito intorno.

    Dunque, l’uomo che per 20 anni ha portato in tasca una tessera del Partito comunista, e ha fatto parte del Kgb che lavorava per espandere la rivoluzione proletaria in tutto il mondo, si ispira invece a uno dei sovrani più conservatori della storia russa. Del resto, lo stesso Putin lo ammise già all’inizio della sua carriera: interrogato dai direttori dei giornali italiani nella sua prima visita a Roma, quando agli occhi del mondo era ancora un oggetto non identificato, si definì “conservatore”. Allora la battuta rimase incompresa, anche perché non era chiaro quanto un russo potesse usare il termine nella stessa accezione dell’Europa, visto che a Mosca fino a pochi anni prima venivano chiamate “sinistra” le forze anti comuniste liberali e “destra” i reazionari del Pcus. Dieci anni dopo, Putin cita in continuazione Nikolai Berdiaev (“Il senso del conservatorismo non è nell’ostacolare il movimento in alto e in avanti, ma nell’ostacolare il moto all’indietro e verso il basso, il buio caotico, il ritorno allo stato primordiale”), si propone come difensore dei “valori tradizionali” dimenticati dall’Europa degradata nella sua “tolleranza asessuata e sterile” (e la crociata contro i gay e l’abbondanza di icone e santi nell’estetica del regime ne sono soltanto le espressioni più visibili), ed è terrorizzato dal “caos rivoluzionario” del Maidan. E diventa chiaro che non ha mai frainteso le terminologie, intendeva proprio questo: lui non promuove le rivoluzioni, è colui che le ferma.

    I metodi ai quali ricorre sono quelli sovietici, presi di peso dai manuali del Pcus e del Kgb. Ma il messaggio è opposto. Il pantheon putiniano fa l’operazione inversa a quella della perestroika, dimentica Lenin per osannare Stalin come “nation-builder” e riesumatore dei valori conservatori dopo la sbornia rivoluzionaria. L’Urss si proponeva di esportare il nuovo, il progresso come lo vedeva, l’emancipazione delle donne e delle classi subalterne, l’industria, la scuola per tutti. Putin difende il vecchio, e ha intuitivamente ragione John Kerry quando lo accusa di usare una logica da Ottocento. Per Putin non è una critica, ma un complimento: l’“altro mondo” nel quale lo accusa di vivere Angela Merkel è fatto ancora di potere militare, territori da annettere, popoli da conquistare. In Russia la sindrome post imperiale superata da Londra, Istanbul e Vienna, è ancora in piena evoluzione, “size matters”, e si capisce perché i tentativi di “soft power” fatti dal Cremlino con le Olimpiadi e Russia Today vengono alla fine oscurati da una propaganda usata come arma contundente.

    Visto da fuori sembra la seconda volta in cui la storia si ripete, una farsesca ricerca della potenza che fu. Visto da dentro, da quei pensatoi che circondano il Cremlino e che non hanno molta ansia di spartire le loro idee con il pubblico, è un progetto, e di nuovo nientemeno che globale. E’ un prodotto per l’esportazione. “Non ci fermeremo in Crimea”, annuncia Alexandr Dugin, direttore della rivista Geopolitica, ideologo degli euroasiatici con buone connessioni anche tra la destra europea e americana, e a quanto dicono una delle voci ascoltate nell’entourage ristretto del potere russo. E snocciola un piano in dieci punti, che porta la nuova rivoluzione russa “dalla Crimea fino a Lisbona”. La penisola sul mar Nero “ieri era una vittoria, oggi è infinitesimale, la posta in gioco cresce”. E dunque, dopo aver spaccato l’Ucraina nell’est russofono (che si chiamerà “Novorossia”, nuova Russia), e aver sobillato il Maidan per farlo rivoltare contro i suoi leader rivelandogli che a uccidere la gente in piazza non è stato Yanukovich, ma “la Cia e il Mossad”, si può anche concedere uno stato nazionalista all’ovest della Galizia. Ma sono minuzie: il vero obiettivo è il Grande Impero Continentale Europeo, un progetto “euroasiatico” che i russi porteranno avanti guidati da un “Uomo del Destino” in quella che è “una guerra contro gli Stati Uniti”. Prima che Washington applichi la tecnica del “golpe nazista” in altri paesi, e con l’aiuto dei nazionalisti europei, spinti dall’odio che “immigrati, musulmani e Lgbt provano verso gli abitanti autoctoni”.

    Può sembrare un delirio paranoico nella confusione di “nazisti sionisti liberali americani”, che però ha il vantaggio di mettere in chiaro quello che si legge tra le righe dei media e degli esponenti del governo russo. Perfino personaggi moderati per mestiere come il ministro degli Esteri Lavrov hanno cominciato a usare termini come “scontro di civiltà” e “valori antagonisti”. Mentre in Europa si cerca di ragionare sugli interessi di Putin in Crimea, cercando di trovare una motivazione anche sbagliata ma comunque razionale del suo agire, per Mosca è solo un lembo di terra simbolico in uno scontro globale. Perfino la retorica panslavista, così cara a un altro zar che piace a Putin, quell’Alessandro III che diceva che gli unici alleati della Russia sono l’esercito e la flotta, passa in secondo piano, anche perché quasi tutti gli slavi sono ormai scappati verso la Nato proprio per evitare la “fratellanza” invadente di Mosca. Non si tratta di territori, accessi al mare e gasdotti, ma di valori, e quindi non c’è nulla su cui mediare e negoziare, è una “contraddizione antagonista” direbbe quel Marx che a Mosca a quanto pare è stato archiviato. In un certo senso Putin è il vero becchino del comunismo. La sua ideologia non passa per le classi, abbandona il sociale per il morale, e non è un caso che i militari russi riempiono la Crimea di volantini contro la “Gayropa” e le madri crimeane ringraziano in tv Putin per averle salvate dall’Ue dove “saremmo diventati genitore 1 e genitore 2, noi vogliamo crescere i figli nella cultura russa”.

    Cosa sia questa cultura alternativa, a parte il malcapitato Puskin tirato in ballo per lo più a sproposito, è ancora da chiarire. Anche perché la verità resta difficilmente eludibile: a venire attratti dal “modello russo” sono per ora in buona parte tagiki e ucraini in cerca di un salario migliore, mentre gli ammiratori europei della Russia – non pochi sia tra le sinistre post comuniste che tra le destre non liberali, in particolare il Front national di Marine Le Pen – preferiscono applaudirla da casa, forse diffidando del suo clima, della sua sanità e della sua giustizia. Ma i contorni della proposta putiniana – al di là dell’autoesaltazione con tratti di training autogeno, sintetizzata nell’idea del portavoce di Putin, Peskov, che “il mondo ci invidia perché siamo forti ricchi e sani” – appaiono sempre più nitidi. E’ un progetto tutto in difensiva, nel quale le parole chiave del 2000 come libertà, mobilità, liquidità, rete, il multi e il micro, sono tutte aborrite. E’ un mondo che rincorre l’autorità e la solidità, dove gli uomini sono uomini e le donne donne, dove ogni cosa ha il suo posto, e il capo ha ragione anche quando ha torto. Nella Russia di Putin gli psicologi del governo inseriscono tra i criteri del reato di “propaganda gay” l’incitamento ai figli “a mancare di rispetto ai genitori”. E’ la “verticale del potere” che non a caso Putin usò come uno dei primi mantra del suo regno. E’ la “Cultura 2”, teorizzata da Vladimir Paperny nel suo brillante (e mai tradotto in italiano) saggio, dove, partendo dall’architettura ed espandendosi poi a ogni sfera, dal linguaggio alla geografia, viene descritto l’eterno antagonismo russo tra l’“orizzontalità” e la “verticalità”, che offre a ciascuno un posto nella gerarchia e la possibilità. Nel proprio piccolo, di essere la punta di una piramide di potere che ha sotto figli, dipendenti, allievi, clienti, nel peggiore dei casi il gatto. Nicola I cercava un’alleanza conservatrice presentendo la fine delle monarchie sotto la spinta del 1848, oggi Putin si ispira a lui e si propone come lo zar che offre protezione dal caos dell’individualismo liberale. Non è casuale che una delle frasi più frequenti dei suoi elettori è “con Putin siamo al sicuro”. Anche quando faticano a spiegare da quali minacce.