Marchionne è un caso politico

Giuliano Ferrara

Marchionne è un caso politico, prima di tutto. Non è solo questione di nuovi modelli, di mercato dell’auto italiano, di valori finanziari, di concambi e transazioni proprietarie, di famiglie del capitalismo transoceanico. L’incredibile performance del chief officer globale (Canada, Svizzera, Abruzzo) e della piccola e ormai marginale industria italiana in declino che si mangia un marchio in disperata crisi della grande tradizione di Detroit e va fino in fondo, tanto da divorarlo e digerirlo ora che l’economia americana è in ripresa, anche avvalendosi dei suoi profitti, non è solo una storia magnifica e in parte misteriosa di potere finanziario e di ardimento nel gestirlo con il sostegno dei poteri decisivi, politici e di mercato, nella patria del capitalismo; è anche e sopra tutto essa stessa un nuovo modello politico degno del quinto centenario del principe di Machiavelli.

    Marchionne è un caso politico, prima di tutto. Non è solo questione di nuovi modelli, di mercato dell’auto italiano, di valori finanziari, di concambi e transazioni proprietarie, di famiglie del capitalismo transoceanico. L’incredibile performance del chief officer globale (Canada, Svizzera, Abruzzo) e della piccola e ormai marginale industria italiana in declino che si mangia un marchio in disperata crisi della grande tradizione di Detroit e va fino in fondo, tanto da divorarlo e digerirlo ora che l’economia americana è in ripresa, anche avvalendosi dei suoi profitti, non è solo una storia magnifica e in parte misteriosa di potere finanziario e di ardimento nel gestirlo con il sostegno dei poteri decisivi, politici e di mercato, nella patria del capitalismo; è anche e sopra tutto essa stessa un nuovo modello politico degno del quinto centenario del principe di Machiavelli. Sergio Marchionne ha lasciato “niuna cosa intatta”.

    Ha sbaraccato la concertazione ed è uscito dalla concertativa Confindustria. Ha messo i governi italiani in condizione di dirgli, con Mario Monti, che il paese doveva smettere di chiedere alla Fiat cosa può fare per l’Italia e invece doveva cominciare a domandarsi l’inverso, che cosa l’Italia poteva fare, sopra tutto omettendo interventi protezionistici, per la fortuna della Fiat, capitale e lavoro, nel mondo dei mercati aperti.

    Politici e sindacalisti classisti sono stati lasciati ai margini, a rimuginare ideologismi e a far chiacchiere: ancora adesso chiedono garanzie, con la ineffabile Susanna Camusso, quando dovrebbero fare il loro mestiere, e cioè contrattare condizioni accettabili per il lavoro, gli investimenti e la ricerca in un faccia a faccia produttivistico e bilaterale con la corporation, come hanno sostenuto, isolati e calunniati, pochi sindacalisti all’americana e qualche leader politico meno bolso e più realista e più di senso comune della media. Non si è piegato al sindacalismo giudiziario delle procure e dei giudici del lavoro, stabilendo compromessi sulla base di una chiara definizione dei diritti dei lavoratori e dell’impresa, che sono parte di un conflitto aperto e di natura contrattuale, non bandiere immobili a disposizione della demagogia ottocentesca dei capipopolo senza popolo. Marchionne ha tirato diritto, attirandosi antipatie equamente distribuite tra proletari, borghesi e mezze calzette, laddove il leader tipico dell’Italia moderna è uno che fa il giro dell’arabesco, disegna ghirigori sulla sabbia.

    Non è importante che lo si immagini come strong man del business, un Vittorio Valletta dei nostri tempi, importante è che gli si riconosca di aver saputo dare battaglia in relazione a una visione, a un senso forte e urgente della realtà effettuale della cosa, senza lasciarsi impaniare, come era capitato spesso a Gianni Agnelli nell’Italia che conosciamo, dai condizionamenti ambientali del mondo d’antan. Chi intende tentare una via seria e responsabile di intervento nella crisi italiana d’oggi non può evitare di guardare con ammirazione a questo comportamento scandaloso che fu accolto, minoranze a parte, con diffidenza e scorno al suo apparire. 

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.