
Ah, i comunisti d'una volta
Perché il Partito democratico non si comporta con sapienza e lascia invece nell'aria l'impressione di una volontà vendicativa da plotone di esecuzione? Il rispetto della legge non c'entra. Berlusconi e i suoi non vogliono cassare la sentenza Esposito, che delegittimano come ingiusta (ma è l'opinione loro e di molti milioni di italiani, non l'oggetto di un voto parlamentare). Non vogliono essere obbligati a rispettare un dispositivo e motivazioni che ritengono ingiusti, ma sono osservanti delle conseguenze.
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Perché il Partito democratico non si comporta con sapienza e lascia invece nell’aria l’impressione di una volontà vendicativa da plotone di esecuzione? Il rispetto della legge non c’entra. Berlusconi e i suoi non vogliono cassare la sentenza Esposito, che delegittimano come ingiusta (ma è l’opinione loro e di molti milioni di italiani, non l’oggetto di un voto parlamentare). Non vogliono essere obbligati a rispettare un dispositivo e motivazioni che ritengono ingiusti, ma sono osservanti delle conseguenze. Non è che restando senatore in virtù di una verifica dell’applicabilità della legge Severino Berlusconi si sottrarrebbe ai domiciliari o all’affidamento in prova, le pene complementari che gli spettano in esecuzione della sentenza definitiva. Sarebbe dunque opportuno in sede politica un protocollo non distruttivo, non automatico, sarebbe una prova di fair play, come ha detto Luciano Violante lamentando di essere stato ferito dai suoi, compresi alcuni dirigenti, in un momento in cui poneva una questione di “democraticità”. Accusa bruciante, come ognuno vede, che riguarda l’identità stessa del Pd.
Se i democratici si comportano così è perché cedono alle sirene, non sono in grado di resistere, procedono per automatismi, per obbligo ideologico: incombono il gruppo concorrente di Vendola, che fa della demagogia, e quello forsennato dei grillini, che vive di insulti e invocazioni generalizzate alla galera, formazioni politiche, prepolitiche o antipolitiche le quali fanno del primitivismo la loro regola nel chiasso mediatico che è padrone assoluto del campo. Ma cedono perché hanno perso le coordinate di una cultura, quella di derivazione Pci, comunista, che aveva altra stoffa ed era di altra pasta rispetto alla condizione di esperienza e di coscienza in cui sono ridotte le truppe del Pd dopo la decomposizione della vecchia area o nucleo che aveva generato il partito. Tre leader di quell’area sono fuori, Bersani espulso con violenza dalla traiettoria della guida politica, Veltroni e D’Alema addirittura fuori dal Parlamento e relegati in un ambito di influenza minore. Gianni Cuperlo, brava persona, è un introverso, la negazione di tutto quanto Matteo Renzi rappresenta in termini di apertura alla società, di inclusività e di capacità aggregante, perfino oltre i confini della sinistra. Al governo di oggi c’è un uomo della sinistra democristiana, perbene ma un po’ senza palle. Per il governo di domani è prenotato, Berlusconi permettendo, il giovane rampollo della Margherita fiorentina, quello che ai post-comunisti strappò di forza perfino la città rossa di Firenze, e che impone loro un tour di successo tra folle deliranti in Emilia e nelle altre regioni un tempo dette “rosse”. Se gara ci sarà per la leadership, a quanto pare, sarà con Letta, non con un post-comunista.
Nei gruppi parlamentari, negli apparati per quanto ancora contino, nel territorio, nelle coorti dei nominati, degli amministratori, la situazione è praticamente la stessa: Piero Fassino sindaco di Torino e qualche cooperatore e banchiere e assicuratore sono gli ultimi superstiti di una stagione lunga, complicata, interessante, piena di cose anche notevoli, che fu caratterizzata dalla cultura politica di matrice repubblicana e togliattiana. L’eccezione del Quirinale, dove a presiedere per un secondo settennato la Repubblica sta un uomo della più schietta tradizione del Partito comunista italiano, Giorgio Napolitano, conferma la regola della autoconsunzione dei post-comunisti, che ha le conseguenze che ha. Napolitano è l’unico in grado di fare un discorso pubblico decente, significativo, realista, controcorrente, di opporsi ai tagliagole dell’antimafia blindata, di difendere le istituzioni dall’assalto antipolitico e demagogico, è l’unico fino a d’ora che sia riuscito, attirandosi inimicizie e sospetti manettari, a tenere un certo equilibrio nei rapporti con l’Italia che Berlusconi ha rappresentato da vent’anni a questa parte. Quelle doti di manovra politica, di senso dello stato e della democrazia dei partiti, sono riunite in questa ultima testimonianza di vitalità del vecchio mondo comunista, naturalmente ripassata al setaccio della storia e a suo modo purificata. Per il resto, il vero grande romanzo della politica italiana procede per capitoli paralleli: da una parte si consuma il berlusconismo, che aspira a scrivere ancora alcune pagine a sanatoria del tentativo di eliminarlo con disonore, e dall’altra si chiude il racconto del post-comunismo, che ormai è un semplice residuato bellico, una visione del mondo se volete seriosa e impegnativa, piena di difetti, ma anche virtuosa.
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