Economia choc

Per Ruggeri, ex manager Fiat, le burocrazie sindacal-confindustriali promettono declino

Marco Valerio Lo Prete

Questa concertazione un po’ predatoria non ha posto in un’Italia che deve scegliere tra “un periodo breve di ‘economia di guerra’ oppure decenni di declino”, dice al Foglio Ruggeri, una carriera iniziata come operaio di Mirafiori e terminata ai vertici del gruppo Fiat

Certi riti concertativi tra Confindustria e sindacati nazionali, come quelli visti all’opera in queste settimane sulla vicenda degli sgravi per la produttività (vedi articolo sopra), appartengono definitivamente al passato. Non dovrebbero avere posto in uno stato che, vicino al fallimento, “va gestito come un’azienda”. A maggior ragione questa concertazione un po’ predatoria non ha posto in un’Italia che deve scegliere tra “un periodo breve di ‘economia di guerra’ oppure decenni di declino”, dice al Foglio Riccardo Ruggeri, una carriera iniziata come operaio di Mirafiori e terminata ai vertici del gruppo Fiat. Ruggeri dice di aver capito già nel 2008 che “questa crisi avrebbe avuto dimensioni epocali” e avrebbe dunque richiesto soluzioni radicali: “Non perché sia un economista o abbia particolari doti profetiche – dice – Più semplicemente mi sono ricordato di quanto vissuto in Giappone all’inizio degli anni 90, quando ero lì come presidente della joint venture Fiat-Hitachi”.   

Nel 1992, alla vigilia della lunga crisi del Sol levante, l’establishment giapponese ripeteva che “il valore immobiliare del centro di Tokyo era equivalente all’intera California”. Poi iniziò la crisi. Ruggeri ricorda un colloquio con il manager Mita San, presidente del Miti (istituzione che tiene assieme la Confindustria locale e il ministero del Commercio): “Mi disse che, stante la profondità del ‘buco’ che si era creato, c’erano solo due opzioni per il paese. O cinque anni di economia di guerra oppure venti anni di crisi costante. E aggiunse: ‘Vedrai che, non avendo leader all’altezza, sceglieremo la seconda opzione e ci suicideremo lentamente’. Così fu”, chiosa Ruggeri. Il parallelo con l’Italia è evidente, secondo l’ex manager Fiat – oggi editorialista di ItaliaOggi diretta da Pierluigi Magnaschi. “La valvola di sfogo della guerra, che ci fu nel 1929, per fortuna non c’è. Lo choc però occorre lo stesso. Per non continuare con i soliti micro aggiustamenti che nel medio e lungo periodo non ci riporteranno a crescere e a creare ricchezza, mi sono convinto che lo stato deve assumere le caratteristiche di un’azienda”. Dal fatto che lo stato debba essere gestito “come un’azienda” discende che “il consociativismo romano di Confindustria e sindacati nazionali è obsoleto”.

  

Ecco il ragionamento di Ruggeri: “Come vuole la teoria di Alfred Chandler, nota a chi si occupa di management di aziende in crisi, la strategia per uscire da una crisi è importante, ma non può che procedere di pari passo con la modifica del modello organizzativo interno”. Ruggeri ricorda che, al momento della fusione di due “aziende fallite” come Fiat Agri e Ford Tractors, lui decise di eliminare i due “headquarter” a cavallo dell’Atlantico, per un totale di 700 manager. “Avevano fallito, era normale che fosse così. Non capisco perché all’alta dirigenza dello stato e degli altri enti pubblici non si debba applicare lo stesso schema”. Concentrarsi sulle “ricette” di politica economica non basta. “In Italia ci sono migliaia di altissimi burocrati che hanno fallito e che dominano ancora l’intero processo legislativo, piegandolo alle loro esigenze di casta”. Per Ruggeri, per esempio, anche dietro la gestione maldestra del “caso esodati” ci sarebbe questo meccanismo di mala amministrazione, più che una colpa solitaria del ministro del Lavoro, Elsa Fornero. “La colpa, tutt’al più, è proprio quella di non essersi liberati per tempo di quei burocrati. Questa classe dirigente, che aborre la leadership, frena l’innovazione, ama la penombra, le norme e le procedure”. Ruggeri insiste: “Chiediamoci pure come sia possibile che 600 mila dipendenti del settore privato sono oggi in cassa integrazione, e invece i dipendenti pubblici chiaramente in esubero non debbano andare in cassa. E’ questione di equità, oltre che di risparmio”.

  

E il rischio “caos sociale”? “Se ci fosse una leadership capace, sarebbe in grado di chiarire all’opinione pubblica che si tratta di uno scambio: problemi e difficoltà nel breve periodo, in cambio di efficienza e benessere poi. Inoltre credo che l’impatto di queste misure sia possibile assorbirlo già con le risorse oggi a disposizione”. L’ex manager chiarisce di non avercela con il settore pubblico in sé, dice solo che senza “recuperare efficienza” nella macchina burocratica, ogni riforma sarà vanificata. Oltre alla Pa, infatti, l’opera di “efficientamento” dovrebbe riguardare anche Confindustria e sindacati, “corrotti” dal rapporto simbiotico con il pubblico: “Vanno smantellati tutti i santuari corporativi pubblici, privati, misti, le modalità di fare impresa e di lavoro. La concertazione per spartirsi risorse pubbliche, gestita a Roma tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil, non esiste più da nessuna parte al mondo. Queste strutture sono distanti e incomprensibili anche per le Confindustrie territoriali e i sindacati di categoria”. Il caso dell’accordo per svuotare le norme Monti-Fornero sulle produttività parla da sé. “Per come la metto io, soltanto un leader simile a Margaret Thatcher ce la potrebbe fare. Ma perfino la Svizzera, in questi anni, ha attraversato una fase di profonda ristrutturazione economica. Con annessi risparmi e licenziamenti. L’alternativa la conosciamo: resta quella del declino alla giapponese”.

  

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