Andreotti, statista al bacio

Giuliano Ferrara

Con un poco d’immaginazione, perché nulla in quel processo grottesco fu mai provato, si può vedere Riina che bacia Andreotti al termine di un colloquio nato per contrattare la pace civile. Non è un baciuzzu d’amore o d’amicizia o di parentela (definimmo il compianto uomo di stato “un colluso di rango”, ed era in parte un sincero complimento per un politico coraggioso e intelligentissimo). Il bacio immaginato è un atto politico di compromissione e di rispetto, due sentimenti che la mafia ha sempre nutrito in relazione al potere, e che la Democrazia cristiana ha saputo interpretare e governare finché ha potuto. I semplificatori hanno sempre detto: credo a tutto, ma non al bacio. Noi abbiamo creduto follemente al bacio, ma non al tutto.

Di Michele L’invincibile discrezione di Belzebù, scatola nera della Repubblica - Sottile Andreotti e il trasformismo giudiziario raccontati da Macaluso

    Con un poco d’immaginazione, perché nulla in quel processo grottesco fu mai provato, si può vedere Riina che bacia Andreotti al termine di un colloquio nato per contrattare la pace civile. Non è un baciuzzu d’amore o d’amicizia o di parentela (definimmo il compianto uomo di stato “un colluso di rango”, ed era in parte un sincero complimento per un politico coraggioso e intelligentissimo). Il bacio immaginato è un atto politico di compromissione e di rispetto, due sentimenti che la mafia ha sempre nutrito in relazione al potere, e che la Democrazia cristiana ha saputo interpretare e governare finché ha potuto. I semplificatori hanno sempre detto: credo a tutto, ma non al bacio. Noi abbiamo creduto follemente al bacio, ma non al tutto. Il garantismo giuridico non esclude il gusto del romanzo.

    Sempre con un poco d’immaginazione, si può vedere l’anima di Andreotti in ascesa verso il Paradiso dei credenti, perché l’uomo nutriva una forte fede, non la fede aerea e spiritualista dell’individuo nel privato bensì quella terragna e trascendente, radicata nella devozione per la chiesa e per il Papa, che da questo romano petrino si lasciò baciare senza problemi (bacio di amore filiale e di parentela) a processo di Palermo aperto. Una fede confessata in punto di dottrina, non una credenza volatile e poco impegnativa. Magari lo faranno aspettare una settimana, giusto il tempo della penitenza per avere un giorno parlato senza comprensione storica e umile giudizio del beato Pio IX, che secondo lui aveva ritardato la maturazione moderna della chiesa con il capriccio dell’infallibilità. Ma siamo nell’era dell’Antisillabo, come una volta disse il giovane riformatore Ratzinger, ed è probabile che anche i custodi del Paradiso si siano assuefatti al Concilio Ecumenico Vaticano II, che questo figlioccio di Pio XII e di Alcide De Gasperi aveva assimilato come il resto di un’immensa mole di materiale politico assorbita e digerita in sessant’anni. D’altra parte, come disse Montanelli che lo apprezzava perché era diverso dai suoi impettiti successori, in chiesa andavano in due, De Gasperi e lui, ma mentre il primo parlava con Dio, Andreotti parlava col prete (“però lui a me rispondeva”, replicò con lo humour sempre miscredente di un vero cattolico).

    Il divo Giulio non si spiega senza la chiesa di Roma, ma la Repubblica dei partiti, nel suo più alto assetto costituzionale e nelle sue derive mortali, non si spiega senza Andreotti. E’ morto nel momento simbolicamente più suo, quando destra e sinistra, in compagnia del centro, sono tutte in uno stesso governo. Oggi è per necessità e per via dei numeri, ma quando comunisti e democristiani e il resto finirono in una stessa maggioranza a sostegno di un suo monocolore dc, oltre alla necessità c’era la scelta strategica di difendere la Repubblica dal partito armato, che voleva rapire lui, ma per ragioni logistiche e militari si orientò su Aldo Moro. Al quale, durante la prigionia e alla vigilia della morte per mano degli assassini, la chiesa, il governo e la maggioranza Andreotti (o il suo nucleo duro) dedicarono una colletta, molti tentativi di soppiatto e una valanga di paternoster, sapendo con Machiavelli e Mazzarino, per la massima sventura del fratello Aldo, che gli stati non si governano con i paternoster e che Moro andava rilasciato, come scrisse il suo fraterno amico Paolo VI, “senza condizioni”. Shakespeare non ha mai abitato in Italia salvo nella tragedia di Verona, la fucilazione del genero Ciano al quadrilatero tra i pianti della figlia Edda, e nella tragedia ancora superiore dell’assassinio del presidente della Dc, suggellata da una santa messa di stato in assenza della salma, con un Papa morente che gridava affranto celebrando all’altare: “Signore, tu non hai esaudito la nostra supplica”. Era un’Italia potente e tremenda, quella della Repubblica celebrata all’altare di San Giovanni in Laterano, che da allora non è entrata mai più in azione.

    Gli ho visto le mani durante un incontro al Corriere, erano affusolate e belle. L’ho scrutato timido in un paio di incontri nei suoi due studi storici, quello di piazza Monte Citorio e quello di San Lorenzo in Lucina. Era impeccabile nei salotti romani. La sua gibbosità era puro melodramma verdiano. L’ho apprezzato per il suo cinismo sulfureo sostenuto da una piccola umanità ciarliera, divagante, intrisa di spirito di patata ma capace anche di forza aforistica. Non condividevo un’acca della sua politica, specie la politica internazionale ambivalente e infida ispirata dalle segreterie di stato vaticane, ma era comunque una grande politica.

    Nel senso dei cretini, tra il penale e il morale, non era ricattabile. Non sarebbe durato così a lungo impunemente. Nel senso dei cretini, non era un ricattatore. Avrebbe avuto materiale per districarsi prima dei processi che lo fecero salire sul Calvario dei caselliani. In un significato un po’ meno cialtrone, era il re della ricattabilità, nel senso che era affidabile anche per gli storici avversari e nemici, perché potevano sottoporlo in ogni momento a screening pericolosi, e il suo carisma era quello di chi aveva qualcosa da nascondere e sapeva nasconderlo; amava ricordare con gelosa e minacciosa ironia le colpe e le vite degli altri. Insomma era un uomo di stato. Come tale lo ammiravano i capi del Pci, da Paolo Bufalini a Gian Carlo Pajetta, fino a Enrico Berlinguer che guidò il suo partito nella tana del gobbo, fatto storico, salvo poi riscoprire la “questione morale”, una banale intervista. Il formidabile Fortebraccio (Mario Melloni, gran signore cattolico fattosi comunista e scrittore satirico d’eccezione) attaccò per anni sull’Unità tutte le figure del regime. Lui mai, perché lo stimava.

    Così vanno le cose e così si profilano le esistenze, quando le si voglia comprendere senza complessi etici. Una delle sue ultime immagini televisive è suprema. Lo si vede nella poltroncina di un talk-show mentre non coglie una domanda e resta in una fissità d’etterno, imbambolato, con lo sguardo rivolto in alto, silenzioso per minuti secondi televisivamente imbarazzanti, quasi morto in anticipo sul suo calendario di destino, incapace di rispondere, in preda a un breve malore senile. Ma la domanda era troppo anche per lui: “Come vede il futuro dei bambini?”.

    Di Michele L’invincibile discrezione di Belzebù, scatola nera della Repubblica - Sottile Andreotti e il trasformismo giudiziario raccontati da Macaluso

    • Giuliano Ferrara Fondatore
    • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.