Il morbo dello scrittore

Mariarosa Mancuso

Sempre più spesso, a leggere quel che sostengono i fan dell’autopubblicazione come magnifica e progressiva sorte dell’editoria, torna in mente lo spillettaio raccontato da Adam Smith in “La ricchezza delle nazioni”. Era l’infelice lavoratore costretto a fabbricarsi da solo lo spillo di cui necessitava, in assenza di divisione del lavoro. Una gran fatica, e uno spillo solitario che usciva dalla manifattura autarchica: utile alla bisogna, ma non certo paragonabile per qualità agli spilli usciti da una fabbrica ben organizzata.

    Sempre più spesso, a leggere quel che sostengono i fan dell’autopubblicazione come magnifica e progressiva sorte dell’editoria, torna in mente lo spillettaio raccontato da Adam Smith in “La ricchezza delle nazioni”. Era l’infelice lavoratore costretto a fabbricarsi da solo lo spillo di cui necessitava, in assenza di divisione del lavoro. Una gran fatica, e uno spillo solitario che usciva dalla manifattura autarchica: utile alla bisogna, ma non certo paragonabile per qualità agli spilli usciti da una fabbrica ben organizzata. Viene in mente Adam Smith, perché la corsa al romanzo fatto circolare senza intermediari – unita alla convinzione “in fondo che ci vuole? lo saprei fare anch’io” che finora aveva afflitto perlopiù l’arte contemporanea e ora sta dilagando ovunque – produrrà enormi quantità di scritti che per essere messi a disposizione del pubblico non disboscheranno l’Amazzonia (se le sorti della foresta pluviale vi stanno più a cuore di quelle della letteratura). Ma sicuramente saranno sotto gli standard che un lettore chiede a un romanzo. Vale a dire buona scrittura, personaggi interessanti, una storia su cui vale la pena di indugiare.
    Parrebbe ovvio, ma a dirlo già si sentono arrivare le frecce avvelenate di chi immagina che scrivere un romanzo sia un diritto inalienabile, e che un mondo di tutti romanzieri sia migliore di un mondo in cui ancora sopravvivono i lettori. Con tutta la benevolenza che possiamo avere per la vanità umana, smisurata come poche altre faccende nell’universo, ancora non riusciamo a capire perché uno si debba mettere a tavolino a raccontare maldestramente le storie sue, invece di leggere storie altrui raccontate a dovere. Lo ha confermato anche Michel Houellebecq in un’intervista recente, annunciando il passaggio alla poesia perché “il romanzo è fatica” – strategia che migliaia di aspiranti poeti avevano già ottimamente messo a frutto. Evitando con cura di leggere i versi altrui: perché se le vendite dei romanzi vanno male da un po’ – e non è solo colpa delle elezioni che distraggono o dell’autofiction che ha liberalizzato il racconto delle proprie disgrazie, pur essendo nata con più elevate pretese – le vendite di libri di poesia vanno male da sempre.

    Ognuno chino sul proprio romanzo in lavorazione, senza nessuna voglia di leggere quelli altrui tranne l’occhiata bastante per dire “mi piace” agli amici su Facebook a loro volta intenti alla compilazione del proprio manoscritto, sperando che il favore torni indietro con gli interessi. Un vecchio giochetto combinatorio sosteneva che un numero adeguato di scimmie, battendo a caso i tasti (di una macchina per scrivere, giusto per misurare l’età della boutade) avrebbe prima o poi composto qualcosa di leggibile, o addirittura un capolavoro. Esistono sistemi meglio collaudati per ottenere il risultato: la divisione del lavoro, appunto, tra chi scrive perché sa farlo e chi legge senza sentirsi frustrato. Per divertimento, come guardiamo le serie tv che ancora non hanno eliminato la barriera tra chi le fabbrica e chi ne gode. Quindi mantengono uno standard qualitativo alto, e proprio in virtù di questo non trascurabile dettaglio procurano piaceri che altrove si fanno rari.
    Con all’orizzonte l’incubo di “tutti scrittori, lettori in estinzione” – paragonabile all’“uno vale uno” dei grillini – è ammirevole che qualcuno ancora cerchi di spiegare la letteratura. E’ stupefacente che escano (su carta e su Kindle) saggi come quello scritto da John Sutherland, specialista di romanzi vittoriani e di molte altre questioni: “50 Literature Ideas You Really Need to Know”. Un manualetto da mettere vicino al libro di James Wood, critico letterario al New Yorker, intitolato “How Fiction Works” (in italiano è uscito da Mondadori con il titolo “Come funzionano i romanzi”). Come funzionano nel doppio senso di “Come funziona una macchina” e di “Ha funzionato la medicina?”: la vecchia scuola resta fermamente convinta che il lettore non sia una variabile indipendente, né un dettaglio trascurabile.
    E’ un piacere constatare che anche la nuova scuola, quella convinta che la letteratura sia solo citazione, campionamento, o addirittura “copia & incolla”, qualche cedimento in materia ce l’ha. Dopo aver messo insieme una compilation critica intitolata “Fame di realtà. Un manifesto” (Fazi) che solo il buon senso degli avvocati ha corredato di un indice dei nomi e delle ruberie, David Shields ha pubblicato “How Literature Saved My Life”. Stesso metodo a collage, ma con le passioni ancora vive. Se possiamo appropriarci di una cosa già detta benissimo da qualcun altro, non si capisce perché la dobbiamo riscrivere da capo, facendo peggio. Se poi certe storie, di loro poco appassionanti, sono già state raccontate mille volte in maniera mediocre, che bisogno abbiamo di fare come se nulla fosse successo? E’ il pensiero che viene a leggere certe trame di certi romanzi, su cinquantenni in crisi – maschi e femmine, nelle cose inutili le pari opportunità sono state raggiunte – e ritorni al paesello dove finalmente si apprezzano le piccole cose della vita, e sì, anche investigatori più o meno dilettanti, ma sempre separati, che indagano su fattacci locali (da quando qualcuno ha sostenuto che i generi avrebbero salvato la letteratura moribonda, non c’è provincia che non abbia il suo commissario con minaccia di serialità: valeva però al tempo in cui i romanzi raccontavano di gente in procinto di scrivere un romanzo, e tutto era preferibile alla meta-letteratura). Precari e signorine che credono di essere Jane Austen, però più moderne e con il gatto a nove code accanto al corsetto, esauriscono l’orizzonte. Già a leggere i sunti sui risvolti di copertina viene il mancamento.

    “Concentrati su quello che ti interessa in quanto spettatore, non su quello che ti piace fare da scrittore. Sono due cose molto diverse”. Il saggio consiglio, che basterebbe a invertire la marcia o almeno a farsi venire qualche dubbio, è uno dei 22 punti della lista Pixar. Circola su Internet, resa pubblica da Emma Coats, ex story artist della ditta, e i commenti alle istruzioni che insegnano a scrivere “una storia indimenticabile” si dividono in due categorie. Quelli che sentenziano “Tolstoj (o Hemingway, o Elmore Leonard, o altro nome a caso preso tra gli scrittori che hanno lasciato liste di consigli) aveva molte meno regole” e quelli che incondizionatamente ammirano. Sarebbero disposti perfino a fare gli esercizi – punto 20: “Prendete una storia che non vi aggrada, smontatela, e rimontate i blocchi costruendo una storia che vi piace” –, meno a seguire il punto 12: “Scartate la prima idea che vi viene in mente. Anche la seconda, e anche la terza, e anche la quarta e la quinta. Togliete di mezzo le cose ovvie”. Uno – Richard Brody del New Yorker, sul suo blog Front Row – ne approfitta per riproporre le vecchie accuse contro lo storytelling che tutto appiattisce, paragonando i film della Pixar al cibo industriale (della ripetitività messa in campo da chi vuole cambiare le regole della narrazione, nessuno parla mai). Neanche il bastian contrario sembra essersi accorto che parecchie regole Pixar erano già nella “Poetica” di Aristotele, patrimonio dell’umanità da svariati secoli.
    In “50 Literature Ideas You Really Need to Know”, John Sutherland dà del tu ad Aristotele e anche a Platone, in un paio di paginette dove si schiera con il primo e inchioda il secondo alle proprie responsabilità: “La critica letteraria in occidente inizia con l’auspicio che la letteratura scompaia”. Questo significa scacciare i poeti dalla città ideale, affidare la verità ai filosofi e caricare sull’umanità a venire uno dei più disastrosi fardelli mai escogitati da mente umana: il mito della caverna, con noi dentro incatenati che vediamo solo ombre mentre la verità ci sfugge. Platone diffidava anche della scrittura, che consentiva la menzogna mentre la presenza del parlante a suo giudizio offriva maggiori garanzie: lo possiamo considerare il primo e il più drastico degli apocalittici.

    Il romanzo è più faccenda da integrati, che non vogliono fare la rivoluzione né cambiare il mondo, ma acchiappano qua e là occasioni per renderlo più gradevole. Per questo un commissario che indaga si può reggere, ma un esercito di commissari sfinisce, tenuto conto che gli intrighi sono sempre più deboli e le descrizioni d’ambiente sempre più logorroiche. Sul falso e sul vero, che Sutherland indaga nel capitolo “Mimesis”, i romanzieri hanno posizioni meno radicali. Si chiama “fiction”, dopotutto, e i personaggi non li incontriamo al bar o al mercato. Ma nello stesso tempo ambisce a raccontare – se non lo stato del mondo che pare esagerato – almeno un po’ di quel che il vecchio Henry Fielding chiamava “natura umana”.
    Non sono gli unici fondamentali a cui John Sutherland dà una sistematina, chiudendo ogni capitolo con una cronologia (avviso ai naviganti: la letteratura non comincia con la generazione che la pratica, e neanche con la generazione precedente venerata dalla suddetta, e a smontarla e rimontarla per capire come è fatta non sono solo i romanzieri). E con una frasetta che riassume la discussione appena conclusa. Ognuna ad alto tasso di litigiosità, va detto, per la precisione con cui inquadra i problemi. “La migliore cassetta degli attrezzi a uso del critico e del lettore” – così viene presentato il volumetto, senza modestia – è anche una lista di dispute, più o meno celebri, che hanno impegnato famose cellule grigie. Per esempio: “La letteratura va paragonata a una corsa a ostacoli o a uno sport competitivo, dove per farsi notare bisogna battere i record precedenti?” (Sutherland non ne è del tutto convinto, a differenza dei compilatori di storie letterarie, che amano distinguere tra maggiori e minori). Tra i complici chiamati a dire la loro, Edward Morgan Forster con il suo grido di piacere – “Oh, sì, il romanzo racconta una storia…” – e Mark Twain con la sua definizione di classico: “Un classico è un romanzo che tutti vorrebbero aver letto ma nessuno vuole leggere”. Per dissipare l’idea che solo i professionisti possano dire la loro, un capitolo è dedicato alla letteratura che fa piangere, marchio di infamia dai tempi in cui Oscar Wilde sbeffeggiava certe pagine di Charles Dickens. Con la stessa verve, ma senza cinismo, il protagonista di “Il lato positivo”, ultimo film di David O. Russell, scaglia dalla finestra una copia di “Addio alle armi”, sconcertato per il triste finale.

    Trucchi del mestiere e meccanismi – dall’allegoria all’ironia alla concretezza nei dettagli – occupano altre due sezioni (si ringrazia per l’assenza di una voce dedicata alla metafora, evidentemente considerata non degna di interesse, e peggio per chi dice “il mio romanzo è una metafora di questo o quell’altro”, intendendo perlopiù un’allegoria). Un’altra è dedicata alle “Nuove idee”, dove si cerca di mettere un po’ d’ordine nella selva dello strutturalismo, della decostruzione, del postmodernismo, del nuovo storicismo e del postcolonialismo: la palma dell’inutilità secondo Sutherland va alla semiologia. Il più bello, e il più ricco di pettegolezzi è dedicato ai “Word Crimes”. Plagio, per cominciare che è il crimine numero uno e come tale perseguito dalla legge, da quando la regina Anna nel 1710 varò per i testi il Copyright Act. Mentre i titoli curiosamente non sono protetti: ti possono fare causa per aver copiato “Il Codice da Vinci” (in tanti ci hanno provato, con buoni argomenti: la trama non era nuova né originale) ma non per un libro che si appropri semplicemente del titolo.
    Ci sono i falsi, come le finte memorie: tra i casi più recenti, “In un milione di piccoli pezzi”, spacciato da James Frey come autobiografico e invece frutto di fantasia romanzesca. A volte finti sono gli scrittori, come J. T. Leroy che commosse il mondo con la triste infanzia nelle piazzole di sosta per camionisti, costretto dalla madre a vestirsi da bambina. Poi si scoprì che dietro lo pseudonimo si nascondeva una coppia di quarantenni, Laura Albert e Geoffrey Knoop. La sorellastra di Geoffrey, Savannah Knoop, impersonava lo scrittore nelle rare apparizioni pubbliche (rare ma non troppo, il suo editor italiano giurava di averci giocato a calcio). Musicisti di scarso successo – dietro ogni falso, letterario o artistico, c’è una quantità non trascurabile di rancore – avevano cercato una scorciatoia per la celebrità. Sutherland non risparmia Anthony Burgess, che nel 1959 scrisse cinque romanzi uno dopo l’altro, tra cui “Un’arancia a orologeria”, per lasciare alla vedova di che vivere. Gli avevano diagnosticato un cancro al cervello, ma una recente biografia sostiene che si trattasse solo di una bella storia per far da cornice alle altre storie.

    Per il futuro, Sutherland parla di “Fanfic”, che sta per “Fanfiction” ed è il primo scivoloso passo verso la letteratura orizzontale e non gerarchica. Gli appassionati lettori di Harry Potter, di “Il signore degli anelli”, della vampiresca saga di Stephenie Meyer si dilettano a scrivere seguiti e storie parallele con gli stessi personaggi, rispettandoli e omaggiandoli. Esiste infatti un delitto chiamato “character rape” (stupro di personaggio, o vilipendio per essere gentili). Gli estremi, per la verità ci sarebbero nel passaggio da “Twilight” a “50 sfumature di grigio”, nato appunto da una costola di “Twilight”. Non fosse che entrambe sono una variazione su “La Bella e la Bestia”, da sempre caro alle ragazze. Un’altra versione aggiornata è in “Barbablù” di Amélie Nothomb, appena uscito da Voland. Non è che le storie o i romanzi manchino, come non mancano gli spilli. Fabbricarseli da soli fa parte di un’economia di sussistenza che speravamo di esserci lasciati alle spalle.