Non trattenete il respiro aspettando l'intervento militare Onu in Mali
Dopo estenuanti negoziati tra la Francia e gli Stati Uniti, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’intervento armato in Mali. Nonostante il piano studiato da Parigi e dai suoi alleati africani fosse stato definito “crap”, una stronzata, dall’ambasciatore di Washington al Palazzo di vetro, Susan Rice, il via libera è arrivato all’unanimità.
Dopo estenuanti negoziati tra la Francia e gli Stati Uniti, il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha approvato l’intervento armato in Mali. Nonostante il piano studiato da Parigi e dai suoi alleati africani fosse stato definito “crap”, una stronzata, dall’ambasciatore di Washington al Palazzo di vetro, Susan Rice, il via libera è arrivato all’unanimità. Nessun voto contrario alla prossima campagna d’Africa, nessuna traccia delle perplessità sull’affidare il destino di quel paese alla determinazione di qualche migliaio di soldati dei paesi vicini nel combattere gli addestratissimi miliziani di al Qaida nel Maghreb, di Ansar Eddine e dei loro gruppi satelliti che da nove mesi controllano indisturbati il nord del Mali. In realtà, spiega l’ambasciatore francese all’Onu Gérard Araud, “nessuno può ora dire con certezza se questo intervento si concretizzerà davvero”. Forse, dice al Nyt, “gli islamisti si arrenderanno prima e si ritireranno dal nord del paese in tempo per evitare che l’armata tutta africana (così stabilisce la risoluzione, e già si parla di contingenti pronti a partire dal Ciad, dalla Mauritania e dal Niger, ndr) metta piede nell’Azawad”.
Tremila uomini, sussurrano i veterani delle campagne Onu in giro per il mondo, non uno di meno, altrimenti si rischia un totale fallimento. Non bastano i 400 esperti che l’Unione europea era intenzionataa inviare a Bamako per addestrare le forze armate locali, nella speranza di riunificare le diverse bande in cui si è diviso l’esercito nazionale dopo il golpe dello scorso marzo. In ogni caso, nessun Casco blu varcherà i confini maliani prima che sia sancita la riconciliazione politica tra i golpisti, il governo civile controllato dai militari e i fedeli al vecchio regime del presidente Amadou Toumani Touré. Inoltre, specifica la risoluzione, si dovranno celebrare regolari elezioni e le forze di sicurezza locali dovranno essere adeguatamente addestrate da tecnici e strateghi inviati lì dall’Unione europea. Solo quando tutte queste condizioni si verificheranno – ammesso che ciò avvenga –, partirà l’attacco ai gruppi islamisti attivi nella parte settentrionale del Mali.
La prospettiva di una riconciliazione nazionale appare al momento lontana, se si considera che solo dieci giorni fa il primo ministro Cheick Modibo Diarra veniva arrestato e costretto alle dimissioni da una ventina di militari agli ordini del capitano Amadou Haya Sanogo, leader del colpo di stato che ha spodestato l’allora capo dello stato, Touré. La risoluzione non dice neppure chi dovrà finanziare la missione, nonostante i funzionari di lungo corso del Palazzo di vetro assicurino che il costo complessivo supererà di gran lunga i 200 milioni di dollari. L’Onu, in questo caso, si rimette alla generosità dei suoi membri, invitati a “contribuire su base volontaria” all’impresa. A fare da garante, come accade in questi casi, sarà il segretario generale Ban Ki-moon.
In ogni caso, nonostante il voto pre-natalizio unanime, l’intervento armato non è imminente, anzi. Se ne riparlerà tra dieci mesi, forse un anno. Prima è impossibile, spiega convinto il capo delle forze di peacekeeping dell’Onu, Hervé Ladsous, secondo il quale “solo tra settembre e ottobre del 2013 potrà avere inizio l’operazione militare”. Parigi avrebbe preferito anticipare di qualche settimana, ma l’estate nel deserto non permette attacchi di terra e spostamenti di truppe, fa troppo caldo. A meno che si decida di accelerare l’attacco con strumenti non ufficiali, aggirando le risoluzioni e facendo uso dei droni, i velivoli senza pilota usati con successo in Somalia, Yemen e nel Waziristan, la zona tribale al confine tra il Pakistan e l’Afghanistan, per eliminare i terroristi presenti nella kill list della Casa Bianca.
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