Se conosci Tonino, eviti Beppe
Che Di Pietro fosse il classico demagogo all’italiana, un personaggio insincero, che tirava a potere e solidità patrimoniale, scavando da piacione nella vena inesauribile della lotta alla corruzione, fingendosi un procuratore in crociata, un giansenista e moralista con le scarpe grosse da contadino e molti peccadillos da farsi perdonare, che avesse famiglia alla Longanesi e anzi fosse il prototipo stesso dell’italiano che ha famiglia, lo sapevamo tutti. Da subito. Poi è arrivata la commissaria Gabanelli, con il finale gesto del maramaldo,e l’ha seppellito fino alla ultima zolla, cioè la beffa di Grillo, un altro Di Pietro in fila per uno, che lo ha proposto per il Quirinale.
Pubblichiamo l'editoriale di Giuliano Ferrara apparso sul Giornale
Che Di Pietro fosse il classico demagogo all’italiana, un personaggio insincero, che tirava a potere e solidità patrimoniale, scavando da piacione nella vena inesauribile della lotta alla corruzione, fingendosi un procuratore in crociata, un giansenista e moralista con le scarpe grosse da contadino e molti peccadillos da farsi perdonare, che avesse famiglia alla Longanesi e anzi fosse il prototipo stesso dell’italiano che ha famiglia, lo sapevamo tutti. Da subito. Poi è arrivata la commissaria Gabanelli, con il finale gesto del maramaldo,e l’ha seppellito fino alla ultima zolla, cioè la beffa di Grillo, un altro Di Pietro in fila per uno, che lo ha proposto per il Quirinale. Milano è un villaggio. Tutti sapevano tutto di tutti. Lui arrestava, istruiva processi-bomba, percorreva in favore di telecamere corridoi fatali accompagnato da avvocaticchi con i quali concordava l’uscita degli arrestati dalle camere di sicurezza in cui si riscuoteva con la paura del carcere la confessione, ma già si sapeva tutto di quel coraggioso magistrato in carriera politica. Si sapeva che non era uno stinco di santo, che le sue cadute di stile erano piuttosto pesanti, che il tout Milan era pieno di gente di denari che aveva avuto rapporti spuri con l’ex poliziotto laureato di fretta e messo lì a fare da battistrada dei professorini dell’anticorruzione del pool, si sapeva quel che è venuto fuori pubblicamente dopo, e cioè che aveva avuto rapporti inconfessabili con un pezzetto dei servizi diplomatici (e altro) americani, che la sua storia di pm antipartito era la storia stessa di come veniva calando la cortina di ferro della guerra fredda.
Si sapeva che era un coraggioso molto particolare, perché quando Bettino Craxi lo sfidò in televisione, con tutto che lui era il vincente e Craxi un candidato alla latitanza e a svariate condanne, Di Pietro si mise sull’attenti e quasi non pronunciò verbo, e per questo fu disprezzato da noi pochi e sgridato dai generali in poltrona che dalla tolda delle reda¬zioni speculavano sulle sue inchieste per abbattere la Repubblica dei partiti, senza sapere che un certo Berlusconi avrebbe poi tolto loro la voglia di fare strani esperimenti con la storia bistrattandoli per quasi vent’anni. Si sapeva che voleva solo fare politica, entrare in Parlamento, diventare ministro e uomo di partito al posto di quelli che c’erano prima: loro a capo di partiti marciti nella corruzione ma gloriosamente fondatori di una Repubblica, lui signor nessuno, molto ignorante fin dalla lingua che parlava, il classico bifolco inurbato orgoglioso delle proprie cattive maniere. Di Tonino si sapeva tutto, compresa la scatola da scarpe che conteneva i contanti restituiti senza interesse al prestatore di ultima istanza del suo distretto giudiziario, il fornitore di Mercedes da rivendere Giancarlo Gorrini. Si sapeva di appartamenti a sbafo, di rapporti spuri con l’indagato di Tangentopoli che «stava un gradino sotto Dio».
Eppure gli italiani lo amavano o fingevano di amarlo. Gli italiani di establishment , avvocati e giornalisti e altri opportunisti della Milano da spolpare, e gli italiani del popolo, poveri illusi dei processi televisivi di un giorno in pretura, erano anche loro incantati da lui, il vendicatore dei torti. Ricordo gli ultimi giorni piovosi di campagna elettorale nel Mugello, e mi rivedo piccolo kamikaze tignoso in viaggio tra quei palazzoni del collegio dove ogni finestra era un voto per Di Pietro, a Sesto Fiorentino, poco dopo comizi surreali in cui io, comunista di scuola togliattiana e di famiglia, poi anticomunista per scelta, spiegavo ai comunisti fiorentini e mugellani che stavano per votare Di Pietro, molto a malincuore, che tipo fosse il beniamino scelto per loro da D’Alema e da Prodi, e dovevo farlo con il palchetto in piazza scortato e protetto dai fascisti che da decenni non avevano fatto sentire la loro voce in quei quartieri di bestiale e radicale egemonia politica cooperativa, socialista e comunista.
Mi annoia la vittoria scontata e postuma sul fantasma di quel malaccorto furbacchione. Sono anche contento che sia toccato ai controinquisitori di sinistra della Raitre il compito non proprio gradevole di bastonare il cane in acqua. Uno del gruppo della Gabanelli, Bernardo Iovene gran razza di cronista, venne nel Mugello nel 1996 e fece un bel documentario, e ha aspettato quasi quindici anni per avere ragione del fantasma di politico demagogo che aveva girato mentre era al’opera, e scappava, nell’ambiente blindato della Toscana rossa. Se la rievoco, questa brutta storia italiana, è solo per mettere in guardia da nuove apparenti vittorie di nuovi furbacchioni. La politica è anche avventura ma non sveltina. O hai qualcosa di solido da proporre oppure la tua traversata dello stretto è destinata a rivelarsi per quel che è, una escogitazione solipsista per ingannare il popolo, così pronto a farsi turlupinare, per passione, per rabbia, per gola, per totale ignoranza delle regole del gioco pubblico.
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